“Il cantante ha legami con l’Idf”. E così viene cancellato il concerto di Hanukkah ad Amsterdam

di Paolo Crucianelli - 6 Novembre 2025 alle 14:27

C’è qualcosa di profondamente stonato nella decisione del Concertgebouw di Amsterdam di cancellare il tradizionale concerto di Hanukkah che si sarebbe dovuto svolgere il 14 dicembre, solo perché tra gli artisti invitati figurava Shai Abramson, cantore capo delle Forze di Difesa Israeliane. È una scelta che colpisce non solo per la sua durezza, ma soprattutto per il suo significato simbolico: un teatro che ha rappresentato, negli ultimi decenni, la rinascita della vita ebraica nei Paesi Bassi decide di chiudere le porte proprio nel momento in cui quella rinascita avrebbe dovuto risuonare ancora una volta in musica.

Lo Shai Abramson che Amsterdam non vuole far cantare non è “un comandante”, non è “un soldato”, non è un simbolo politico o militare: è un artista, con all’attivo studi rigorosi e un percorso internazionale che l’ha portato a esibirsi nelle principali sale e sinagoghe del mondo, voce liturgica fra le più rispettate della tradizione ebraica contemporanea. Ha studiato canto classico, esegue repertori sacri e patriottici, dirige ensemble vocali, incide musica liturgica ebraica e non si è mai sottratto all’idea della musica come ponte culturale. Il fatto che, nel suo Paese, serva nell’esercito con un ruolo musicale non lo trasforma in ciò che Amsterdam ha scelto di vedere: un emissario militare da respingere. Resta un artista, e come tale merita di essere trattato.

Qui, però, si è scelto altro. Si è scelto di dire che l’appartenenza all’IDF è incompatibile con un palcoscenico europeo. È un precedente inquietante per chiunque creda che l’arte debba essere spazio di universalità e di inclusione, non terreno di discriminazione per provenienza, convinzioni personali o, in questo caso, il “vestito” che indossa. La musica – l’arte in tutte le sue forme – nasce proprio come ponte per superare ostacoli e differenze; oggi, e non è la prima volta, viene trasformata in diga per escludere.

C’è poi un elemento storico che rende questa vicenda ancora più grave. Il concerto di Hanukkah ad Amsterdam non è un appuntamento musicale come gli altri: è un rito civile, un momento in cui la città ricorda la sua comunità ebraica annientata e insieme celebra la sua capacità di rinascere. Fu vietato dai nazisti e venne ripristinato settant’anni dopo come simbolo luminoso del ritorno dell’ebraicità pubblica in un Paese dove il 75% degli ebrei fu assassinato durante la Shoah, il tasso più alto dell’Europa occidentale.

Rinunciare a quel concerto oggi, per l’identità di un cantore ebraico che presta servizio – musicale, non operativo – nel suo esercito, significa intaccare quel simbolo. Significa, di fatto, riproporre una selezione identitaria proprio sul terreno dove si dovrebbe combatterla con più determinazione.

Non sfugge a nessuno che questa decisione arrivi in un momento delicatissimo, in cui una tregua fragile dovrebbe preludere alla prospettiva di una pace duratura in Medio Oriente. Proprio ora ci sarebbe bisogno di gesti che calmano gli animi, gesti di distensione; la cancellazione del concerto sembra invece andare nella direzione opposta. L’arte non deve avere paura della complessità. Può accogliere la storia, le ferite, perfino le uniformi, senza farsi travolgere dall’odio che dovrebbe, invece, filtrare. Amsterdam aveva un’occasione per ricordarlo. Ha scelto diversamente. Ed è un errore.

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