Rom Braslavski: i retroscena della prigionia

di Paolo Crucianelli - 11 Novembre 2025 alle 12:35

Già mesi fa aveva fatto il giro del mondo la storia di Rom Braslavski, quando la propaganda di Hamas diffuse il video di un ostaggio in prigionia, il primo dopo la strage del 7 ottobre. In quel filmato, girato per scopi propagandistici e diffuso come “prova di vita”, Rom appariva emaciato, con lo sguardo perso di chi lotta per sopravvivere. Oggi, dopo oltre 700 giorni di prigionia a Gaza, emergono i retroscena di quell’inferno: torture, fame, isolamento e abusi sessuali.

In un’intervista esclusiva concessa al canale israeliano 13 e anticipata dal Daily Mail, Braslavski ha raccontato la violenza subita nelle mani della Jihad Islamica Palestinese (PIJ), che lo aveva rapito al festival musicale Nova durante l’attacco del 7 ottobre 2023. «Mi hanno spogliato completamente, mi hanno legato… ero nudo, morivo di fame», ha detto. «È stata violenza sessuale, e lo scopo era umiliarmi, distruggere la mia dignità. È qualcosa che nemmeno i nazisti avrebbero fatto».

La sua testimonianza, seppur frammentaria, delinea un quadro agghiacciante di abusi sistematici e disumanizzazione, in cui la violenza fisica si intreccia con quella psicologica e sessuale. Rom ha raccontato che i suoi carcerieri cercavano di piegarlo anche spiritualmente, tentando di costringerlo a convertirsi all’Islam in cambio di cibo e “regali”. «Mi ripetevano: “Noi siamo la vera religione, noi siamo Maometto”. Ma io sapevo che ero lì solo perché ebreo», ha detto. Appena rientrato in Israele, ha voluto indossare i tefillin – i filatteri che gli ebrei usano nella preghiera mattutina – come primo gesto di libertà e di ritorno alla propria identità.

A completare il racconto, la voce della madre, Tami Braslavski, che per due anni non ha smesso di pregare e sperare. È stata lei a ricostruire i dettagli della prigionia del figlio: l’isolamento prolungato, i lunghi periodi trascorsi nel terrore più assoluto, la convivenza con i corpi di altri ostaggi uccisi, la denutrizione estrema. «Ci ha raccontato cose orribili come se fossero normali», ha detto. «Io le sento e mi si spezza il cuore. Ma ora posso abbracciarlo davvero. Non è più lì, è qui».

Secondo Tami, i rapitori hanno tentato di spezzare la volontà di Rom anche psicologicamente, mostrandogli filmati delle manifestazioni nella piazza degli ostaggi di Tel Aviv e dicendogli che nessuno parlava più di lui. Gli facevano credere che la famiglia fosse distrutta e che il suo Paese lo avesse dimenticato. Un metodo di tortura psicologica che si aggiungeva a quella fisica: mani e piedi incatenati, vessazioni quotidiane, un pezzo di pane secco al giorno, e la costrizione a usare una bottiglia come unico bagno.

Tami ha ricordato anche un episodio di disperazione e coraggio: durante una fase di fame estrema, Rom riuscì a liberarsi dalle manette, a incendiare i vestiti dei suoi carcerieri nel bagno e a usare il fuoco per scaldare un po’ di acqua per cuocere della pasta. Il fumo richiamò l’attenzione all’esterno; la gente in strada capì che si trattava di un ostaggio: la folla inferocita urlava, colpiva le finestre, pronta a linciarlo. Lui si nascose sotto un letto, recitando lo Shema Israel. Solo l’arrivo improvviso del suo carceriere, con le chiavi in mano, evitò il peggio.

Nei giorni che hanno preceduto la liberazione, i terroristi lo hanno alimentato a forza, provocandogli gravi squilibri glicemici. Ma il segno più profondo, come ha ammesso lo stesso Rom, è dentro di sé, non fuori. «Ogni giorno era un inferno, e sapevo che il giorno dopo ne sarebbe arrivato un altro», ha detto. «Pregavo solo di sopravvivere abbastanza da vedere ancora la luce».

La sua è una testimonianza che riporta brutalmente la realtà dietro la retorica della “resistenza”: una realtà fatta di umiliazione, violenza e deprivazione, dove il dolore di un singolo ostaggio diventa simbolo di un’intera tragedia nazionale. Particolarmente significativo è il racconto della folla che voleva linciarlo: quelle persone non erano Hamas, ma civili.

Rom Braslavski è tornato. Vivo. Ma dentro di lui, l’inferno di Gaza non è ancora finito.

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