Il collasso morale dell’Europa e il ritorno dell’antisemitismo

13 Novembre 2025 alle 11:30

L’articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su JNS.org

L’Europa sta attraversando una convulsione il cui centro morale sta venendo meno proprio quando la chiarezza sarebbe più necessaria. Quelli che un tempo sembravano dibattiti isolati sulla politica mediorientale si sono trasformati in una crisi di civiltà radicale: una convergenza di indignazione postmoderna, immigrazione di massa e opportunismo politico che ha normalizzato l’ostilità verso Israele e resuscitato vecchi schemi antisemiti sotto nuove forme. Lo spettacolo è impressionante. Personaggi pubblici e intellettuali riutilizzano un vocabolario incendiario – “apartheid”, “genocidio” e “pulizia etnica” – non come qualificazioni in un ristretto dibattito giuridico, ma come strumenti contundenti di delegittimazione dello Stato ebraico. Quando tali affermazioni appaiono incontrastate sulle principali piattaforme, non funzionano più come critica; diventano l’impalcatura per la cancellazione.

L’obiettivo dell’Europa oggi non è criticare Israele, promuovere la pace tra israeliani e palestinesi o addirittura sostenere la creazione di uno Stato palestinese, ma piuttosto unirsi all’attacco globale contro gli ebrei e l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Non si tratta solo di narrazioni storiche errate. Si tratta della strumentalizzazione del risentimento. In molte capitali occidentali, movimenti universitari, ONG e reti mediatiche amplificano un’unica narrazione riduttiva che dipinge Israele come il male principale in un mondo caotico. Nel frattempo, crimini ben più gravi e letali altrove – massacri di massa in alcune parti dell’Africa, campagne sistematiche di violenza religiosa ed etnica in Asia – non suscitano lo stesso clamore globale. L’indignazione selettiva ha conseguenze morali: quando l’attenzione è monopolizzata da una narrazione costruita, le vittime reali altrove vengono emarginate e la genuina chiarezza morale viene sacrificata per convenienza ideologica.

I meccanismi sociali sono chiari. Una nutrita schiera di giovani attivisti ha adottato un modello di identità morale che privilegia la purezza performativa rispetto alle sfumature storiche. Parlano di “oppressore” e “oppresso” come categorie fisse e interpretano conflitti complessi attraverso questa lente binaria. Questa semplificazione si sposa con un progetto culturale di sinistra che ha perso fiducia nello Stato-nazione e cerca l’autorità morale attraverso cause globali; si allinea anche con l’attivismo islamista che sfrutta le lamentele per espandere la propria influenza nella vita pubblica europea. Il risultato è un’ecosfera politica in cui la demonizzazione paga dividendi elettorali e culturali. Questa alleanza tra correnti della sinistra europea e islamisti ha effetti tangibili. Le università sospendono la collaborazione con gli enti di ricerca israeliani; le istituzioni culturali dibattono sull’opportunità o meno che le orchestre israeliane si esibiscano; sindacati e autorità comunali adottano gesti simbolici che isolano le istituzioni ebraiche anziché proteggerle. Queste azioni non sono isolati errori di tono. Sono sintomi di un cambiamento più profondo: istituzioni che un tempo fungevano da baluardi del liberalismo ora consentono, o almeno tollerano, un clima pubblico in cui gli ebrei sono presi di mira in modo sproporzionato e Israele è descritto come un anacronismo illegittimo.

C’è anche un aspetto geopolitico. Il difficile allontanamento dell’Europa da partenariati strategici stabili – causato dalla dislocazione economica, dall’ansia demografica e dalla sclerosi burocratica – ha indebolito la sua capacità di rispondere in modo coerente alle minacce alla sicurezza. Allo stesso tempo, un attivismo transnazionale rinvigorito ha trovato terreno fertile nei centri metropolitani europei. Il risultato è paradossale: un continente che ha prodotto i moderni ideali dei diritti umani, ora li impiega troppo spesso in modo selettivo, trasformando la retorica dei diritti umani in un’arma per delegittimare una democrazia minacciata alla propria esistenza. La deriva culturale aggrava il problema. Laddove un tempo la conoscenza storica e testuale aiutava a moderare le polemiche, oggi molti dibattiti pubblici procedono in una nebbia di ignoranza. La complessità storica è appiattita; narrazioni che cancellano la continuità storica ebraica nella Terra d’Israele vengono riciclate acriticamente. Questa pigrizia intellettuale non è innocente: alimenta politiche e pratiche che delegittimano le rivendicazioni ebraiche e, per estensione, la sicurezza ebraica. Le conseguenze pratiche non tardano ad arrivare. Gli episodi di aggressione fisica e intimidazione contro gli ebrei nelle strade europee sono in aumento. Sinagoghe e cimiteri vengono vandalizzati; gli studenti ebrei segnalano un’atmosfera agghiacciante nei campus. Questi non sono danni astratti. Sono violazioni del patto civico: la sicurezza di una minoranza è il vero banco di prova di una società liberale.

Cosa bisogna fare? Innanzitutto, la chiarezza del linguaggio è importante. Esiste un ampio e necessario spazio per una critica legittima alla politica israeliana. Ma le critiche che cancellano la storia, gonfiano i numeri senza fondamento o si sforzano di annientare retoricamente devono essere denunciate. Le democrazie hanno bisogno di dibattito; non sopravvivono a una delegittimazione prolungata mascherata da urgenza morale. In secondo luogo, le comunità ebraiche e i loro alleati devono investire nel rafforzamento dell’identità e delle istituzioni. L’orgoglio di appartenenza non è una provocazione; è uno scudo. La mobilitazione politica, la resilienza culturale e le iniziative educative che rivendicano la memoria storica smorzeranno il fascino delle narrazioni semplicistiche. In terzo luogo, i governi e le istituzioni civiche europee devono riaffermare i princìpi fondamentali: pari protezione legale per gli ebrei, rigorosa repressione dei crimini d’odio e insistenza affinché gli scambi accademici e culturali procedano sulla base del rispetto reciproco e dell’integrità fattuale. Bisogna opporsi ai gesti simbolici che riservano a Israele un trattamento eccezionale, poiché corrodono l’applicazione di principio delle norme sui diritti umani. Infine, gli alleati oltre l’Europa – gli Stati Uniti, gli amici di Israele nella società civile, le reti ebraiche globali – non devono trattare l’Europa come una causa persa. L’Europa ha ancora importanza geopolitica e culturale. Rimane un luogo in cui la battaglia per la ragione e la memoria può essere combattuta e vinta.

Il ritorno dell’antisemitismo in Europa non è un fantasma antico rianimato per caso. È il prodotto di scelte politiche contemporanee e fallimenti intellettuali. Se permettiamo alla fusione di mode ideologiche e opportunismo geopolitico di dettare la vita pubblica, avremo rinunciato ai fondamentali termini morali che un tempo separavano le democrazie liberali dalle masse del passato. L’ammonimento della storia è severo: la delegittimazione precede l’espropriazione. I leader, gli intellettuali e i cittadini europei devono decidere se dare ascolto a questo monito o permettere che si apra un altro capitolo di declino morale. La prova non è astratta: è se gli ebrei in Europa possano camminare in sicurezza, mandare i propri figli a scuola senza paura e partecipare pienamente alla vita civile. Se l’Europa vuole rivendicare la sua pretesa morale, deve iniziare difendendo i più vulnerabili all’interno dei suoi confini.

Noi, il popolo ebraico, dobbiamo ora concentrarci su noi stessi, sulla nostra resilienza, sulla vittoria che abbiamo ottenuto e sul fatto inconfutabile che siamo ancora qui. Con gli Stati Uniti come unico baluardo di chiarezza morale, Israele deve continuare a fungere da solido pilastro della civiltà occidentale, ancorato alla democrazia, alla libertà, all’identità e alla forza di prevalere, soprattutto in quella che è una giusta guerra di difesa.

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