Clan armati a Gaza: strategia rischiosa o necessità inevitabile?
di Paolo Crucianelli - 13 Novembre 2025 alle 12:30
La più recente strategia degli Stati Uniti per favorire il disarmo di Hamas e la stabilizzazione della Striscia di Gaza – passaggio chiave per avviare le nuove fasi del piano Trump per la pace – consiste nel trasformare le milizie anti-Hamas in forze di peacekeeping locali, con il compito di mantenere l’ordine nei territori liberati. Se tali forze dovessero dimostrarsi efficaci, verrebbero progressivamente investite di ulteriori poteri.
Accanto a Yasser Abu Shabab, gli americani hanno avviato contatti anche con una figura meno nota: Husam al-Astal. La task force internazionale con base nel sud di Israele mantiene contatti regolari con capi clan e comandanti di milizie della Striscia, con l’obiettivo di aiutare a mantenere l’ordine e l’organizzazione nelle nuove zone umanitarie designate, oltre che di assistere nella distribuzione di cibo e aiuti ai palestinesi sfollati, nel nord come nel sud di Gaza. Queste due milizie da settimane combattono quotidianamente contro i terroristi di Hamas.
Secondo quanto riportato dai media arabi e israeliani, al-Astal si è inizialmente unito alla milizia creata da Abu Shabab a est di Rafah, per poi istituire una propria “zona sicura” nella regione di Khan Yunis. In alcune interviste, al-Astal ha dichiarato che la sua milizia riceve equipaggiamenti e supporto da Israele, e che esiste una stretta coordinazione operativa tra lui, Abu Shabab e le forze israeliane.
Le difficoltà nel costituire una forza multinazionale da dispiegare nella Striscia rendono questa strategia più un rimedio tattico che una soluzione duratura. Israele e Stati Uniti puntano su attori locali per evitare l’impegno diretto di soldati occidentali o arabi, ma i rischi restano elevati. Il Guardian ha già avvertito che “milizie e clan sostenuti da Israele stanno assumendo il controllo di parti di Gaza, aggravando la crisi umanitaria e minacciando gli sforzi di pacificazione”.
Pur comprendendo la difficoltà di trovare Paesi disposti a mandare le proprie truppe nella Striscia di Gaza per disarmare Hamas – un’operazione che equivarrebbe a una guerra urbana casa per casa, che persino Israele ha evitato – sorgono degli interrogativi. Fino ad oggi solo la Turchia si è dichiarata disposta a inviare militari in un territorio ancora sotto il controllo dei terroristi, ma Israele ha posto il veto: non vuole i soldati di Erdoğan nel cortile di casa, il che è comprensibile. Paradossalmente, dal punto di vista tattico sarebbe forse la scelta migliore; nessuno, né i Paesi arabi, né quelli occidentali potrebbero poi lamentarsi delle inevitabili vittime collaterali.
L’idea di armare clan tribali come quelli di Abu Shabab o al-Astal può sembrare attraente – perché anche in questo caso i Paesi arabi non potrebbero protestare – ma è estremamente rischiosa. Questi gruppi non agiscono in base a princìpi politici o ideali di pace, bensì seguendo logiche di potere, vendette tribali e opportunismo. Non sappiamo quale sarà il loro comportamento futuro una volta dotati di armi, potere e autorità: il rischio è che diventino nuove signorie armate, con logiche di predazione poco diverse da quelle dell’avversario che dovrebbero contrastare. È lo stesso errore che si è fatto più volte in passato, come con i mujahedin in Afghanistan, dove gli alleati di oggi si trasformarono nei nemici di domani.
È bene ricordare che l’uscita di scena di Hamas non garantisce di per sé ordine, governabilità o stabilizzazione. Senza un progetto politico credibile e controlli efficaci, armare e legittimare i clan potrebbe risolversi in un nuovo coacervo di caos, non in una soluzione.