Questione “Palestinese”: Storia di una grande palla – Collettivo Comunisti – Crotone
14 Novembre 2025 alle 14:02
Quando si parla di questione palestinese, molti danno per scontata l’esistenza di un popolo con una storia millenaria e un’identità nazionale consolidata. Ma se andiamo a scavare nella storia vera, quella documentata e non quella raccontata dalla propaganda, emergono verità che farebbero vacillare molte certezze.
Il termine “palestinese” come identità nazionale è un’invenzione relativamente recente, che risale agli anni Sessanta del secolo scorso. Prima di allora, gli abitanti arabi della regione si identificavano come siriani del sud, giordani, o semplicemente arabi. Non esisteva alcuna coscienza nazionale palestinese, né tantomeno istituzioni, cultura specifica o aspirazioni indipendentiste che li distinguessero dai loro vicini arabi.
La storia palestinese, quella vera, è la storia di diverse ondate migratorie arabe che si sono sovrapposte nel corso dei secoli in una terra che ha sempre avuto carattere multietnico. Molte delle famiglie che oggi si proclamano “palestinesi da sempre” hanno cognomi che tradiscono origini egiziane, siriane, giordane o addirittura bosniache e albanesi, eredità dell’impero ottomano. I registri demografici dell’epoca ottomana e del mandato britannico mostrano chiaramente come la maggior parte della popolazione araba sia arrivata nella regione seguendo le opportunità economiche create dagli investimenti ebraici.
È paradossale come la stessa Organizzazione per la Liberazione della Palestina, fondata nel 1964, tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni, non rivendicasse inizialmente la Cisgiordania e Gaza, allora sotto controllo rispettivamente giordano ed egiziano. Solo dopo che questi territori passarono sotto controllo israeliano, improvvisamente divennero “terra palestinese occupata”. Una coincidenza quantomeno curiosa per chi sostiene che esista una continuità storica millenaria.
L’intera narrativa palestinese si regge su una serie di miti fondativi che crollano sotto il peso dell’analisi storica. Si parla di “pulizia etnica” del 1948, ignorando che furono gli stessi leader arabi a ordinare l’evacuazione temporanea per facilitare l’annientamento di Israele, promettendo un rapido ritorno vittorioso. Si invoca il “diritto al ritorno” per i profughi, dimenticando che nessun paese arabo ha mai concesso la cittadinanza ai palestinesi, mantenendoli deliberatamente in condizioni precarie per oltre settant’anni come arma politica.
La politica della memoria palestinese è costruita su una sistematica riscrittura della storia che nega qualsiasi legame ebraico con la terra d’Israele, nonostante l’evidenza archeologica, i testi storici e la continuità di presenza ebraica documentata ininterrottamente per tremila anni. È un esercizio di negazionismo storico che farebbe impallidire i più creativi revisionisti europei.
Eppure questa narrativa artificiosa è diventata il pilastro della diplomazia internazionale, sostenuta da un’Europa in cerca di redenzione post-coloniale e da un mondo islamico che ha trovato nella causa palestinese un comodo diversivo dalle proprie contraddizioni interne. L’autodeterminazione, principio sacrosanto quando applicato ad altri popoli, diventa improvvisamente problematico quando riguarda gli ebrei.
La verità è che la questione palestinese è funzionale al mantenimento dello status quo regionale. Serve ai regimi arabi per distrarre le proprie popolazioni dai problemi interni, all’Iran per legittimare la sua strategia espansionistica, all’Europa per sentirsi moralmente superiore dopo secoli di antisemitismo culminati nella Shoah. È il perfetto capro espiatorio che permette a tutti di sentirsi dalla parte giusta senza affrontare le proprie responsabilità.
Il bluff palestinese funziona perché si inserisce perfettamente nell’immaginario occidentale del debole contro il forte, dell’oppresso contro l’oppressore. Non importa che Israele sia circondata da paesi che la superano di migliaia di volte in territorio e popolazione, non importa che i palestinesi abbiano rifiutato ogni proposta di pace e compromesso. L’importante è mantenere viva la mitologia della vittima perpetua, anche quando questa vittima celebra gli attentati terroristici e educa i propri figli all’odio.