No Other Land: cosa c’è davvero dietro il documentario

di Luigi Giliberti - 16 Novembre 2025 alle 16:56

C’è un punto del mondo in cui la terra non è solo un pezzo di suolo. È una prova. Un testimone muto che assorbe passi, demolizioni, ricostruzioni ostinate. Un luogo che non parla, ma registra tutto. Quel punto si chiama Masafer Yatta, estremità meridionale della Cisgiordania, zona arida oltre Hebron, dove il vento sembra più testardo degli abitanti. È qui che nasce No Other Land, il docufilm che Rai ha mandato in onda tra esitazioni e polemiche. Un film arrivato come un oggetto sospetto: discusso prima ancora di essere visto. Non per ciò che mostra, ma per ciò che ti costringe a guardare. Perché il punto non è mai il film. Il punto è ciò che il film obbliga a confessare: in questa storia non esistono innocenti immacolati né colpevoli assoluti, solo popoli intrappolati in una narrativa che sfugge da decenni.
La telecamera di Basel Adra non fa sconti. Mostra demolizioni, sopralluoghi, tende che diventano case e case che tornano tende. Niente colonna sonora, niente retorica facile. Solo la ripetizione della stessa violenza quotidiana. Accanto a lui, l’israeliano Yuval Abraham: una presenza in controtendenza, perché rompe sia la narrativa filopalestinese che quella filoisraeliana. Non è un alleato: è una crepa. Una frattura in un muro. Il film non prende posizione. Osserva. E lascia allo spettatore il compito peggiore: uscire senza una risposta pronta.
Qui il discorso cambia tono, perché la versione israeliana non è un’opinione: è un impianto giuridico stratificato, verificato, sedimentato per decenniPer Israele, Masafer Yatta non è un villaggio “antico” spazzato via: è Firing Zone 918, una zona militare chiusa istituita negli anni ’80 e riconfermata più volte dalla Corte Suprema israeliana, che ha stabilito che:
  • lo Stato può dichiarare aree di addestramento militare;
  • gli edifici costruiti senza permesso in tali aree possono essere rimossi;
  • la designazione della zona ha fondamento nelle regolamentazioni del Mandato Britannico (che ancora oggi regolano gran parte della legge immobiliare in Cisgiordania);
  • l’area rientra nell’Area C, che gli Accordi di Oslo II (1995) attribuiscono al pieno controllo civile e militare israeliano fino all’accordo finale.
Il discorso israeliano è chirurgico: le demolizioni non sono “punizioni”, sono atti amministrativi. Le costruzioni non sono “tradizione”, sono strutture abusive. La zona non è “un villaggio”, è una base militare operativa in un’area critica, dove la topografia è strategia. E spiegano: in una regione dove ogni collina è un punto d’osservazione e ogni tratto di deserto può diventare un varco, ignorare la sicurezza significa pagare coi morti. Per questo la posizione israeliana è fredda, severa, e allo stesso tempo granitica. È una posizione che può irritare, ma non è improvvisata. È una posizione strutturata, coerente, legalmente blindata.
Dall’altra parte la visione è opposta. Per gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta la terra non è una parcella catastale. È memoria. È continuità familiare. È il luogo in cui si torna perché si è sempre tornati. Per loro i “permessi edilizi” sono un’arma burocratica: negati, rimandati, mai rilasciati. Per loro, essere accusati di “costruzioni abusive” è un insulto: come se uno dovesse chiedere un permesso per vivere dove viveva suo nonno. La loro verità non poggia su norme: poggia sul tempo. E quando dicono “No Other Land”, non è una frase poetica. È una constatazione. Non hanno un altrove.
Il nodo è qui: il conflitto nasce da due legittimità parallele.
  • Il diritto scritto, quello degli Stati, delle corti, delle mappe, degli archivi.
  • Il diritto vissuto, quello delle consuetudini, della memoria, della terra come identità.
Entrambi reali. Entrambi impermeabili l’uno all’altro. E per questo il conflitto è bloccato: non c’è punto di contatto. La legge dice una cosa, la vita ne dice un’altra.
Dopo l’ennesima demolizione, Basel Adra guarda la camera e dice: “Non c’è un’altra terra.” E il film si chiude. Niente musica, niente pathos. Resta una domanda che pesa più di un bulldozer: se per i palestinesi non c’è altra terra, e per gli israeliani non c’è sicurezza senza quel controllo, come si esce da un conflitto in cui nessuno può permettersi di perdere?
No Other Land non parla di chi ha ragione. Parla del fatto che entrambe le parti credono sinceramente di averla. La tragedia è geometrica: identità simmetriche, poteri asimmetrici. E una terra che non ha un altrove per nessuno. Israele non può arretrare senza sentirsi condannato. I palestinesi non possono andarsene senza sentirsi cancellati. E noi spettatori restiamo lì, sospesi tra due verità che non si riconoscono. Perché questo conflitto non finisce per una ragione semplice e terribile: nessuno può perdere senza sparireIn quella valle dimenticata, dove il vento cancella le impronte ma non la memoria, non è in gioco un appezzamento di deserto. È in gioco l’esistenza stessa di due popoli convinti di non avere un altro posto al mondo. E i film, per quanto onesti, non risolvono le guerre. Al massimo ricordano ciò che nessuno vuole ammettere: da lì non uscirà un vincitore. Solo sopravvissuti.

Il grande archivio di Israele

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