Il silenzio che ha accolto gli ebrei sopravvissuti alla Shoah: riprendiamoci la Memoria
17 Novembre 2025 alle 11:23
Quando pensiamo al 1945, immaginiamo la fine di un incubo. Ma per molti ebrei sopravvissuti alla Shoah, il dopoguerra non fu un ritorno alla vita: fu l’inizio di un altro tipo di solitudine. Dopo la liberazione, migliaia di uomini, donne e bambini cercarono di tornare nelle loro città, nelle loro case, nei luoghi che avevano lasciato. Quello che trovarono, però, non fu accoglienza, ma il suo esatto contrario. Le società europee, impegnate a ricostruirsi e desiderose di lasciarsi alle spalle gli anni della distruzione, non erano pronte a incontrare lo sguardo di chi era sopravvissuto.
Riconoscere i sopravvissuti avrebbe significato riconoscere anche le responsabilità diffuse: l’indifferenza, la complicità, l’antisemitismo radicato che non era scomparso con la sconfitta del nazismo. Nessuno era ansioso di abbracciare i fantasmi rientrati dai lager. La loro sopravvivenza era anzi una minaccia, un monito sgradito. Così il ritorno non fu ricongiungimento ma diffidenza, esclusione, rifiuto. O in molti casi non ci fu nessun ritorno. Rientrare nelle proprie case saccheggiate ed espropriate, nei propri quartieri irriconoscibili era impossibile, e comunque sconsigliabile. In molti casi, la “liberazione” significò rimanere in campi di raccolta allestiti negli stessi luoghi dei lager appena liberati. Le baracche non sparirono subito, le recinzioni rimasero, e anche la sorveglianza. La libertà non coincideva ancora con una vita possibile. Il mondo fuori dai campi stentava a riconoscere la presenza di chi aveva attraversato lo sterminio.
Questo è il punto da cui parte la settimana che si apre oggi. Non per rinnovare lo sguardo su un trauma individuale, ma per restituire un fatto storico spesso dimenticato: la Shoah non finisce nel 1945. Per molti sopravvissuti, il dopoguerra è stato un lungo attraversamento di spazi che non accoglievano, di luoghi che non restituivano continuità, di tentativi di racconto che non trovavano ascolto. Riprendere questa parte della storia significa comprendere la Memoria non come un’eredità immediata, ma come un processo difficile, nato in un mondo che non era ancora pronto a riconoscere ciò che era accaduto. È da questo silenzio che comincia la nostra settimana.