Via da Gaza , deportazioni mascherate da evacuazioni

Articolo fortemente ideologico: il linguaggio (“deportazioni”, “pulizia”) è usato senza fornire prove o contesto operativo, ignorando la presenza armata di Hamas nelle zone di evacuazione e le esigenze di sicurezza della popolazione civile. Una narrazione militante che sostituisce i fatti con una chiave accusatoria.

All’indirizzo indicato come sede europea non risulta nulla; l’e-mail istituzionale non funziona; persino il link per le donazioni risulta inattivo. Le foto dei presunti dirigenti risultano generate da intelligenza artificiale. Nessuna traccia di progetti precedenti verificabili, né documenti sulle attività svolte negli anni. Nei media arabi le domande si moltiplicano. Testate come Al-Quds al-Arabi, Felesteen e Erem News descrivono un soggetto opaco, con richieste di dati personali estremamente sensibili rivolte ai civili di Gaza: certificati familiari completi, recapiti di parenti all’estero, documenti finanziari e informazioni sui contatti avuti con ong europee e autorità palestinesi. «Sembrava più un interrogatorio che un’offerta di aiuto», racconta un uomo di Khan Yunis. Non è difficile vedere in questa raccolta di informazioni e nella mancanza di trasparenza un possibile coinvolgimento in operazioni politiche più ampie, in linea con una storia in cui organizzazioni pseudo-umanitarie sono state utilizzate per favorire trasferimenti di popolazione. UNA RAGAZZA con una borsa di studio in Italia, temendo di non riuscire a raggiungere l’Europa dopo molti ritardi, ha pensato di partire con loro. Ma dopo i primi contatti confessa di essersi spaventata: lo stile era diverso da quello delle associazioni e delle università che la sostengono, qualcosa nel tono e nelle richieste l’ha allarmata. Inizialmente le evacuazioni venivano presentate come gratuite. Poi la situazione è cambiata. Testimonianze raccolte da Al Jazeera, Associated Press e media sudafricani parlano di cifre tra 1.500 e 5.000 dollari a persona. Una madre di Deir al-Balah, evacuata con due figli, racconta: «Ci hanno detto che senza pagare 3.500 dollari non saremmo mai usciti. Ho venduto l’oro di mia madre e chiesto un prestito a mio fratello a Dubai». Un altro passeggero, arrivato in Sudafrica, riferisce di essere stato sollecitato a pagare «in contanti, subito, mentre c’erano ancora raid nei cieli di Gaza». Una modalità difficilmente compatibile con le prassi di un’organizzazione umanitaria, dove la sicurezza dei civili viene prima. LA RICOSTRUZIONE DELLE ROTTE conferma elementi ancora più oscuri. Le testimonianze convergono su un percorso che parte da Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, prosegue sotto controllo israeliano fino all’aeroporto Ramon, a sud di Eilat, per poi spostarsi verso l’Africa. Nessun passaggio dalla Giordania, dove le evacuazioni sono più rigidamente monitorate. I voli decollano da uno scalo controllato dall’esercito israeliano, senza documentazione chiara, per atterrare a Nairobi e poi proseguire verso il Sudafrica. Molti sostengono di non essere stati informati della destinazione finale. Alcune testimonianze indicano anche tratte verso il Sudest asiatico. Un uomo riferisce a Al Jazeera che «un primo gruppo ha raggiunto l’Indonesia a giugno», sempre attraverso Al-Majd Europe, passando da Ramon con scalo in uno Stato europeo. Una fonte palestinese parla di un primo volo verso Budapest, su un charter rumeno, e da lì di destinazioni come Malaysia e Indonesia. Un attivista sudafricano, visionate alcune carte d’imbarco, sostiene che tra le destinazioni figurassero anche India, Malaysia e Indonesia. Jakarta non conferma arrivi coordinati da Al-Majd Europe, si limita a gestire un proprio programma umanitario. IL CASO ESPLODE IN SUDAFRICA, quando un charter atterra a Johannesburg con 153 palestinesi a bordo. Le autorità rilevano subito mancanza di documenti validi, assenza di timbri d’uscita, certificazioni incomplete e procedure insolite.
I passeggeri vengono trattenuti in pista per ore; il governo annuncia un’indagine. Il presidente Cyril Ramaphosa parla di un arrivo «misterioso», «non coordinato», facilitato da attori esterni, affermando che quelle persone sono state «spinte fuori» da Gaza. Una parte viene accolta per ragioni umanitarie, altri ripartono verso Canada, Australia e Malaysia. La domanda centrale è semplice e inquietante: chi beneficia davvero di questa operazione? Perché costruire un sistema parallelo di evacuazioni, costoso, privo di monitoraggio internazionale, con voli che passano da aeroporti militari e arrivano in Paesi non coinvolti nel processo? Perché spostare i civili lontano dalla Striscia senza un coordinamento ufficiale con Onu, Unrwa o altri attori riconosciuti? NUOVI ELEMENTI emergono da un piccolo gruppo di famiglie di cui si era persa traccia. Una donna di Rafah, oggi a Surabaya, racconta che il suo viaggio è stato organizzato «da un gruppo tedesco», partendo da Kerem Shalom. Il gruppo viene imbarcato su un volo europeo che avrebbe dovuto portarli in Malaysia, ma una parte prosegue verso l’Indonesia grazie a un visto turistico ottenuto prima della guerra. Dice di aver viaggiato due giorni senza sapere la destinazione, di non aver ricevuto documenti chiari e di aver appreso dove si trovasse solo all’arrivo. Un giovane di Jabalia, oggi a Medan, riferisce di essere stato contattato da un numero palestinese non registrato e convocato vicino a Khan Yunis: «Ci dissero che saremmo andati in Egitto. Poi nel Negev, poi a Ramon. Solo a Budapest capimmo che alcuni di noi sarebbero stati mandati in Indonesia». Al momento dell’imbarco, gli era stato detto che «tutto era coordinato con organizzazioni internazionali», ma in Asia nessuno li aspettava. Parallelamente emergono interrogativi sui finanziamenti. Si parla di donazioni private da Paesi del Golfo, trasferimenti attraverso piattaforme non regolamentate e possibili contributi di intermediari europei attivi nella logistica “umanitaria” semi-clandestina. Un ex coordinatore di soccorsi a Gaza descrive la rete come «una costellazione di micro-finanziatori: piccole raccolte fondi, canali paralleli, fondazioni di facciata che muovono somme modeste ma sufficienti a far decollare un charter». Altri finanziatori sarebbero convinti di sostenere «operazioni di salvataggio», inconsapevoli dell’assenza di tracciabilità. SUL TERRENO, il quadro dei reclutatori è altrettanto opaco. Numerosi gazawi riferiscono di essere stati contattati da numeri sconosciuti, spesso con prefissi europei o da Sim temporanee. Un uomo di Rafah racconta che l’intermediario «parlava un arabo non locale». Gli intermediari cambiano numero a ogni fase del viaggio; gruppi WhatsApp creati per organizzare le partenze scompaiono poco dopo l’imbarco verso Kerem Shalom. Una giovane di Gaza City dice di aver ricevuto solo messaggi vocali con istruzioni: presentarsi «entro due ore» in un punto di raccolta, senza spiegazioni. Dubbi analoghi riguardano i voli europei usati come scalo. Si parla di charter, spesso operati da piccole compagnie est-europee, verso aeroporti come Budapest o Bucarest, da cui i passeggeri vengono ridistribuiti verso Africa o Asia. Alcuni documenti di viaggio mostrano carte d’imbarco di compagnie minori, con tratte che non compaiono nei registri ordinari. Una fonte diplomatica europea ammette «movimenti non registrati nel traffico commerciale standard», senza ulteriori dettagli. Anche le procedure all’aeroporto Ramon sembrano pensate per ridurre al minimo le tracce. Testimonianze convergono su ingressi secondari, bus scortati da veicoli militari, passeggeri registrati con liste nominali e non con passaporti. Un tecnico di Eilat parla di soste in spazi di parcheggio remoti, decolli e atterraggi in fasce orarie “tecniche”, fuori dal traffico civile, con voli che non compaiono sui tabelloni interni. Una giovane madre evacuata verso il Sudafrica racconta che nessuno ha chiesto loro documenti, i nomi venivano spuntati su fogli stampati: «Ci dissero solo di restare in fila, seguire le istruzioni e non sc
attare foto o video». SECONDO UNA FONTE con conoscenza delle pratiche aeroportuali israeliane, Ramon è spesso usato per operazioni che richiedono «alto controllo e bassa visibilità», grazie alla posizione nel deserto e al limitato traffico commerciale. Il personale può operare senza registrazioni digitali, come nelle operazioni di sicurezza: questo spiegherebbe perché alcuni voli legati ad Al-Majd Europe non compaiono nelle banche dati internazionali. Su questo si innesta il livello geopolitico. Analisti regionali sostengono che l’uso di Ramon non sia solo una scelta logistica, ma uno strumento politico: permette a Israele di controllare ogni fase del trasferimento, evitando la supervisione internazionale e spostando i gazawi lontano da valichi sensibili come quelli egiziani o giordani. Una fonte vicina agli ambienti diplomatici di Amman sostiene che «se passassero dalla Giordania, la comunità internazionale vedrebbe numeri, liste, destinazioni. Ramon è pensato per garantire opacità». La Giordania, dal canto suo, continua a porre ostacoli alle evacuazioni, ufficialmente per evitare lo svuotamento di Gaza, ma di fatto spingendo molti verso canali alternativi e non controllati. Un funzionario europeo ricorda che da anni, in think tank vicini alle istituzioni israeliane, si discute della possibilità di «alleggerire» la densità di popolazione a Gaza favorendo la migrazione verso Paesi terzi. Non esistono documenti ufficiali che lo sanciscano, ma l’uso di Ramon per operazioni non tracciate sembra compatibile con questo scenario. Un diplomatico arabo al Cairo riferisce che alcuni Paesi del Medio Oriente sono stati contattati informalmente per accogliere “piccoli numeri” di gazawi, ma molti avrebbero rifiutato per non legittimare uno svuotamento della Striscia: «Se apri le porte, il flusso diventa un fiume. E quel fiume non si ferma più». NEL SILENZIO dei corridoi che portano da Kerem Shalom a Ramon, negli scali nascosti d’Europa, nelle rotte ignote verso Africa e Asia, si consuma una trasformazione profonda del tessuto umano palestinese. Quanto di questo movimento è scelta, e quanto è il prodotto di una pressione invisibile che spinge i gazawi lontano dalla loro terra, in un viaggio senza ritorno che nessuno ha il coraggio di chiamare con il suo nome? Responsabili sono anche i nostri Paesi, che non pretendono l’invio di osservatori internazionali a Gaza, né spingono con decisione per il riconoscimento dello Stato palestinese, né garantiscono evacuazioni attraverso corridoi umanitari monitorati da organismi indipendenti. Continuiamo a offrire ai palestinesi compromessi inaccettabili e, così facendo, ci rendiamo corresponsabili dell’ennesima tragedia inflitta a un popolo.

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