Il Rapporto Harrison rese evidente una verità rimossa: la Shoah non finì nel 1945
18 Novembre 2025 alle 11:37
Nel 1945, la fine della guerra non riportò gli ebrei sopravvissuti alla vita civile. Circa 180.000 furono concentrati nei campi per Displaced Persons in Germania, Austria e Italia: luoghi identici ai lager da cui erano stati liberati, con baracche, recinzioni, filo spinato e persino guardie tedesche in uniforme. È il caso di Bergen Belsen registrato da Harrison.
Le sue ispezioni mostrarono una realtà drammatica:
– a Bergen-Belsen, gli ebrei vivevano ancora “come animali in gabbia, circondati dai loro ex-carcerieri”;
– a Landsberg, ricevevano meno calorie dei prigionieri di guerra tedeschi;
– a Föhrenwald, non esisteva alcun programma di riabilitazione.
Harrison sintetizzò così la condizione dei sopravvissuti: «Ricordano quelle inflitte dai nazisti, con l’unica differenza che non li sterminiamo». Questa situazione durò anni. Alcuni campi rimasero attivi fino al 1950 e i più poveri, privi di risorse o case a cui tornare, furono costretti a restare proprio nei territori del Reich decaduto. Fu il caso di 12.000 ebrei in Germania e di 8.000 in Austria. Il rapporto mise in luce anche un altro aspetto: il 98% degli ebrei nei DP Camps chiedeva di andare in Palestina, ma lo 0% riceveva una priorità di emigrazione.
Per molti, quindi, il dopoguerra non fu un ritorno o un nuovo inizio, ma solo una diversa forma di reclusione, questa volta amministrata dagli Alleati. Per alleviare il disagio, Harrison raccomandò misure radicali: separare gli ebrei dagli altri profughi, abolire il filo spinato, rimuovere le guardie tedesche, creare campi autogovernati. La sua denuncia aprì la strada al Comitato Anglo-Americano d’Inchiesta e alle successive quote di immigrazione. Il Rapporto Harrison rese evidente una verità rimossa: la Shoah non finì nel 1945. In molti casi, la prigionia continuò per anni, negli stessi spazi dove gi ebrei erano stati perseguitati.