La risoluzione che scommette sul futuro
Velardi firma l’analisi più matura della giornata. Spiega come il voto ONU non sia un atto simbolico, ma una decisione che definisce la futura architettura di sicurezza della regione. Il piano USA, approvato dal Palazzo di Vetro, riconosce la necessità della presenza israeliana e isola Hamas in modo strutturale. Un editoriale limpido, pragmatico e privo di artifici retorici: il migliore del giorno.
Mentre nel tinello di casa ci si accapiglia sul nulla cosmico, cioè su un presunto piano per evitare l’ascesa della Meloni al Quirinale nel 2029 (sì, duemilaventinove), l’altra notte il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha assunto una decisione di rilievo storico, e chissà se qualcuno in Italia se ne accorgerà, sia pure a scoppio ritardato. Si tratta, per usare un’espressione netta, di un possibile, effettivo cambio di fase della storia mediorientale. Perché la risoluzione 2803 appena approvata non parla soltanto di fermare le armi: progetta il dopoguerra. Mette in piedi un meccanismo che – se funzionerà, il condizionale è d’obbligo – cambierà la natura stessa della questione israelo-palestinese. La prima novità è clamorosa: il Consiglio di Sicurezza approva e istituzionalizza il piano americano per Gaza. Non un vago sostegno, non una cornice umanitaria, ma una legittimazione piena, punto per punto. È il ritorno dell’ONU non come spettatore, ma come architetto operativo della transizione. E infatti la risoluzione prevede una forza internazionale di stabilizzazione, con mandato di due anni, che entrerà dentro Gaza per garantire sicurezza, proteggere i civili, ricostruire strutture di governo e – parola finora impensabile in un testo ONU sul conflitto – assicurare la demilitarizzazione. È una svolta epocale: non è mai accaduto che Ga2a venisse posta sotto una forma di tutela internazionale tanto esplicita. La seconda decisione riguarda la creazione di un Board of Peace, una sorta di protettorato politico temporaneo con la supervisione dell’amministrazione americana guidata da Donald Trump. Che piaccia o no, è la prima volta che una risoluzione ONU personalizza così tanto la gestione di un territorio conteso, pur senza specificare del tutto la composizione del Board. Non lo fa per caso: lo fa perché, dopo un anno di stallo e due anni di guerra, nessuno – nemmeno i Paesi arabi – vuole più lasciare Gaza alle dinamiche interne israelo-palestinesi. L’ONU appone come un timbro notarile su un compromesso politico costruito altrove, ma dalle enormi ambizioni. Terzo punto, il più sottile e il più trascurato: la risoluzione riapre, con linguaggio misurato ma inequivocabile, il dossier dello Stato palestinese. Non con i toni propagandistici che piacciono alle cancellerie europee, ma dentro una cornice di condizionalità ferrea: niente Stato senza disarmo, niente governance senza riforme, niente riforme senza assistenza internazionale. È, di fatto, l’architettura di un percorso possibile, di cui gli Stati Uniti e Trump assumono la regia del processo, raccogliendo le astensioni di Russia e Cina che, dopo aver bloccato per mesi la discussione con i veti incrociati, stavolta non si sono opposte per non assumersi la responsabilità del caos e perché prive di una proposta alternativa. In definitiva, la risoluzione 2803 non è un esercizio retorico ma un tentativo – forse l’ultimo possibile – di mettere ordine a un sistema collassato. Per una volta, l’ONU non si mette in mostra come il salotto delle buone intenzioni: diventa invece il laboratorio di un esperimento politico rischioso, imperfetto, ma finalmente concreto. Si può discutere se funzionerà. Si può dubitare della sostenibilità di una forza internazionale a Gaza. Si può criticare il protagonismo americano. Ma una cosa è certa: non siamo più nella Gaza di prima. Chi non ha capito cosa è successo l’altra notte, rischia di non capire neppure quello che accadrà domani.