Nostra Aetate, 60 anni dopo: tra perplessità e interrogativi, arrivano segnali di speranza da Papa Leone XIV
di Francesco Lucrezi - 21 Novembre 2025 alle 10:57
Sessant’anni fa, esattamente il 28 ottobre del 1965, com’è noto, nell’ambito del Concilio Vaticano II, veniva pubblicata la famosa Dichiarazione Nostra Aetate. Sul significato di questa Dichiarazione conciliare, in occasione di questo anniversario, molto si è detto e scritto, sottolineando la rilevanza di tale passaggio, il suo significato storico, teologico e culturale, e chiedendosi, soprattutto, se a questo documento siano seguiti gli auspicati frutti sul piano del dialogo e della riconciliazione, o se sia piuttosto rimasta una sorta di “lettera morta”.
Si è veramente aperta, con quel documento, una fase nuova nel millenario rapporto tra “Antica” e “Nuova Alleanza”, o si è trattato piuttosto di un mero gesto di cortesia, di una generica e occasionale manifestazione di intenti di “buon vicinato”, senza un gran rilievo sul piano sostanziale? E, se si è trattato di un’effettiva apertura, dell’apertura di una nuova strada, in questi sessant’anni si è andati avanti lungo questo percorso? Si è restati fermi o si è andati indietro?
Rispondere a queste domande in poche righe è difficile. Bisogna innanzitutto riconoscere che questa breve dichiarazione (non più di tre pagine, di cui solo poche righe dedicate agli ebrei) ebbe, per quei tempi, un valore effettivamente rivoluzionario. Da appena sette anni era scomparso Papa Pio XII, che, pur impegnato in una lotta senza quartiere contro il pericolo comunista, non ritenne mai di pronunciare neanche mezza parola di condanna della Shoah, e pronunciò la parola “antisemitismo”, in tutta la vita, una sola volta, nel 1946.
Il merito di questa svolta va attribuito esclusivamente a due grandi uomini, Papa Roncalli e Jules Isaac. Fu Isaac, autore del famoso libro Gesù e Israele, che capì che quello che era successo negli anni precedenti era il frutto di quasi due millenni di predicazione antigiudaica da parte della Chiesa (tanto cattolica quanto protestante), e che, in un colloquio privato avvenuto il 3 giugno 1960, chiese a Giovanni XXIII di far sì che il Concilio segnasse una svolta anche su questo terreno. Roncalli non avrebbe avuto intenzione di inserire il delicato tema nei lavori conciliari, ma fu subito convinto da Isaac, e gettò le basi della Dichiarazione, che fu firmata, dopo la sua morte (avvenuta nel 1963), dal suo successore Paolo VI (il quale, senza l’impulso del suo predecessore, con ogni verosimiglianza, non ci avrebbe proprio pensato).
La Dichiarazione riconosce che la santa elezione del popolo di Israele non è mai stata revocata (“gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento”) e, soprattutto, solleva, dopo 19 secoli, il popolo ebraico, nella sua interezza, dalla terribile accusa del “deicidio” (“se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo”).
Purtroppo, la Dichiarazione, pur oggetto di approfondimento da parte di diversi successivi documenti pontifici, è rimasta sostanzialmente confinata a livello di élite, come una sorta di nota teologica per eruditi. Non è circolata, se non in piccola parte, al livello di base, non è entrata a far parte del corpo e del sangue della comunità ecclesiale. Se l’antisemitismo cattolico è stato per secoli sbandierato ai quattro venti con forza e virulenza, la “svolta” è avvenuta senza clamore, non ha avuto adeguata risonanza.
Comunque, nonostante tutto, quelle poche righe restano una traccia, un segno che non potrà essere cancellato. Potranno cadere nell’oblio, ma potranno ancora fungere da stimolo a ulteriori sviluppi positivi. Il Pontificato di Papa Leone XIV, in questo senso, offre dei segnali di cauta speranza. Bisogna quindi ringraziare queste due grandi anime, Roncalli e Isaac, che hanno permesso, nonostante un terribile passato, di sperare.