Metamorfosi Medio Oriente
Ruhollah Khomeini pensava in grande: «Io spero che potremo alzare la bandiera dell’Islam in tutto il mondo». E, in grande, odiava: «Se un miliardo di musulmani levasse la propria voce, i sionisti avrebbero paura delle loro acclamazioni». Annientare gli ebrei, «profanatori dei luoghi sacri», è divenuto così uno dei capisaldi della rivoluzione iraniana dentro cui si mescolano dal 1979 terzomondismo e rinascita sciita, teocrazia populista e repressione popolare. Coerentemente a questo progetto di espansionismo escatologico, un gigante ridestato come l’Iran ha sviluppato la sua sfera di influenza da Teheran a Damasco, da Baghdad a Beirut, con relativo sbocco sul Mediterraneo garantito da Hezbollah e propaggini sulle rotte del Mar Rosso tramite i ribelli Houti; diventando, nonostante lo scisma religioso, protettore dei sunniti di Hamas a Ga2a. È questa, sulla mappa della geopolitica del terrore, la Mezzaluna Sciita che il 7 ottobre 2023 ha giocato la sua grande scommessa: chiudere la partita con Israele mentre l’odiata «entità sionista» era più debole, perché divisa (da un anno ogni sabato mezzo Paese manifestava in piazza contro il premier Netanyahu e la sua sciagurata riforma della giustizia). Il pogrom nei kibbutzim pacifisti e la mattanza al Nova Festival hanno un profilo preciso: dovevano essere il clic d’un attacco simultaneo dei Proxy e del loro dante causa iraniano per cancellare la Stella di David e creare un’unica Palestina «libera dal fiume al mare», ovvero liberata dagli ebrei, come vaneggiano in Occidente i nostri inconsapevoli ragazzi pro Pal nei cortei e nelle università. Ma Israele non muore, si rialza e reagisce: l’azzardo è fallito. E da questo fallimento prende le mosse Il nuovo Medio Oriente di Giovan Battista Brunori, corrispondente della Rai da Gerusalemme e cronista valoroso (le oltre duecento pagine del libro — pubblicato da Belforte Editori — seguono il percorso dei suoi reportage sul campo, arricchite dai servizi televisivi visibili scansionando con lo smartphone i codici QR). Alle tre del mattino del 13 giugno 2025 suonano le sirene, i caccia israeliani attaccano Teheran mirando a distruggere i siti nucleari dove, nonostante promesse e sanzioni, gli scienziati degli ayatollah continuano ad arricchire l’uranio ben al di sopra dei limiti per uso civile. Manca poco alla bomba? L’idea di un ordigno di distruzione di massa nelle mani di un regime canaglia mette i brividi ma, per ora, può essere riposta nell’archivio degli incubi. L’attacco israeliano ha l’effetto di trascinare con sé anche Trump. L’erratico presidente americano, che fino a poco prima stava trattando con gli ayatollah, decide di saltare sul carro vittorioso di Netanyahu e domenica 22 giugno manda i suoi B-2 a bombardare la centrale nucleare sotterranea di Fordow con le GBU-57, capaci di penetrare per decine di metri gli strati di cemento dei bunker prima di esplodere. È finita? Forse no. L’ayatollah Khamenei, successore di Khomeini, resta al comando, il regime vacilla ma non crolla, 400 chili di uranio arricchito sono stati forse trasferiti in un altro sito, gli scienziati uccisi negli attacchi verranno rimpiazzati. La «guerra dei 12 giorni» non è risolutiva e ne vedremo forse un nuovo capitolo da qui a ottobre del 2026, data delle elezioni israeliane, cruciali per un premier che vive di guerra. Ma il programma nucleare è ritardato: e non è questo l’unico colpo. La Mezzaluna tramonta. Brunori ci racconta come Israele, superato lo choc, si ricompatti attorno al suo esercito di popolo. E come il mitico Mossad, scornato dal disastro del 7 ottobre, si riscatti con una serie di operazioni in stile Monaco ’72. Ecco dunque l’uccisione di Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas che invocava il sangue del proprio popolo «per irrorare la rivoluzione», in visita di Stato a Teheran; quella di Hassan Nasrallah
, carismatico leader di Hezbollah, a Beirut; l’operazione «walkie talkie» con cui i servizi segreti di Gerusalemme decapitano il gruppo terrorista facendo esplodere simultaneamente cinquemila cercapersone «truccati» in mano ai suoi miliziani; l’eliminazione di Yahya Sinwar, il cupo regista del 7 ottobre, a Ga2a. L’effetto collaterale è la caduta del feroce regime siriano di Bashar al Assad, non più protetto dalla solidarietà sciita nella regione. Regolati i conti almeno per il momento, è tempo di guardare indietro. Al massacro del 7 ottobre. Alle sue vittime. Ai 251 sequestrati nei tunnel di Ga2a. Agli stupri collettivi praticati da Hamas come arma. All’omissivo silenzio della comunità internazionale. Il racconto di Brunori — è giusto dirlo — si dipana in gran parte dal punto di vista israeliano: del resto la tragedia israelopalestinese è così divisiva da non lasciare grandi spazi di terzietà a chi vi si avvicini. Dunque, niente sconti per gli ospedali Nasser e Al-Shifa, certo bombardati dall’Idf ma infiltrati pesantemente da Hamas. E neppure concessioni ai giornalisti palestinesi — tante le vittime tra loro — talvolta così «embedded» tra i miliziani da assumere un ambiguo doppio ruolo. Anche la strategia della fame, con cui il governo estremista israeliano tenta di piegare Ga2a dal marzo 2025, viene contestualizzata forse al di là del plausibile: vero che Hamas strumentalizza gli aiuti, vero che l’Onu spesso abbandona le derrate nei centri di stoccaggio (Brunori stesso lo documenta a Kerem Shalom), ma è indiscutibile che il sistema dei contractor messo in piedi da Israele in soli quattro punti di distribuzione a sud della Striscia travalichi qualsiasi criterio di umanità e dignità. E, tuttavia, il libro non esce mai dai suoi canoni di onestà cronachistica, rifuggendo i luoghi comuni. Ed è la sua cifra migliore. Le colpe di Netanyahu, l’ex «Mister Sicurezza» che ha fallito; le violenze dei coloni e le connivenze dei politici messianici a West Bank; la vittoria propagandistica di Hamas che, pur sconfitto dalle armi, torna a rendere l’antisemitismo veleno corrente nel mondo: tutto si tiene mentre rispolveriamo gli Accordi di Abramo, unica formula possibile per cercare la convivenza tra ebrei e musulmani nella regione, un’integrazione necessaria. Il nuovo Medio Oriente si staglia nella tregua a Ga2a e nella provvidenziale liberazione degli ultimi ostaggi. Ma resta sullo sfondo, tra americani, israeliani e monarchie arabe, un convitato di pietra, silente. Il regime di Teheran, contestato fin nel costume dalla sua stessa gente (persino con un matrimonio all’occidentale non represso dalla polizia morale), in bilico tra destini tutti possibili e aggrappato alla forza economico-militare dei suoi pasdaran: l’ultimo spicchio, forse, di ciò che fu una mezzaluna.