Cisgiordania, in ottobre otto raid al giorno. A Gaza «67 minori uccisi dopo la tregua»
Due conflitti. Uno fragilmente trattenuto dalla tregua, quello di Ga2a, e uno al quale manca solo il riconoscimento ufficiale, un nome, in Cisgiordania. La Palestina assediata, frammentata e divisa si riunisce quotidianamente intorno ai feriti e gli uccisi, e sono forse i bambini, troppo spesso senza nome, a rivelare la natura più spietata della guerra. Secondo Ricardo Pires, portavoce dell’Unicef, sono almeno 67 i minori uccisi nella Striscia di Ga2a dal cessate il fuoco del 10 ottobre. «Decine sono i feriti. È una media di quasi due minori al giorno», ha sottolineato Pires in una conferenza stampa ieri a Ginevra. Attraverso i numeri, le Nazioni Unite hanno offerto recentemente anche il quadro drammatico della Cisgiordania. Dal 7 ottobre 2023 a oggi sono 211 i bambini uccisi dalle forze dell’ordine israeliane. Anzi, 213 se si aggiungono all’elenco Sami Ibrahim Mashaikha, 16 anni, e Amr Khaled al-Marboua, colpiti a morte ieri dai soldati dell’Idf durante un’operazione a Kfar Aqab, conurbazione di Ramallah. Devono ancora essere restituite alle famiglie le salme di Mohammad Ayyash e Bilal Sabarnah, entrambi quindicenni, uccisi giovedì scorso in circostanze poco chiare a Beit Ummar, non lontano da Hebron. La comunità sostiene che a sparare sia stata la guardia della vicina colonia di Karmei Zur. A Tal, villaggio vicino a Nablus, un agente di polizia palestinese è stato ucciso nella sua abitazione durante un’operazione delle forze israeliane. Dopo la città cristiana di Taybeh, assalita dai coloni giovedì, ieri è stato il turno di Huwara e Abu Falah, anch’essi piccoli centri non lontano da Nablus. In ottobre i raid sono stati 260, una media di otto al giorno. Solo nella notte fra giovedì e venerdì le incursioni devastatrici sono state sette: incendi di macchine, campi ed edifici, aggressioni che hanno preso di mira perfino gli anziani. Mai così dal 2006. Nel corso delle ultime settimane, il numero, la ferocia e soprattutto la resistenza dimostrata dai coloni al pur connivente esercito, hanno portato il presidente della repubblica Herzog, il capo di Stato maggiore Zamir e perfino il segretario di Stato americano Rubio a esprimersi con preoccupazione e fermezza. Rapidamente, tuttavia, nella narrazione le operazioni dei “giovani delle colline” sono passate da rappresentare un pericolo anarcoide e sistematico per lo Stato a essere le intemperanze di un «piccolo gruppo estremista», come affermato dal premier Netanyahu. O, secondo un’interpretazione ancora più originale, quella dell’ambasciatore americano a Tel Aviv Huckabee, «un piccolo numero di giovani criminali che non abitano nemmeno lì, ma vi si recano per creare caos in Giudea e Samaria». Le bande dei giovani sionisti messianici fanno in realtà informale riferimento al ministro della Sicurezza Ben-Gvir e a quello delle Finanze Smotrich, essi stessi coloni, alfieri dell’annessione di Ga2a e della Cisgiordania, e della legge sulla pena di morte. Il provvedimento, che ha superato il primo dei tre passaggi parlamentari, prevede la pena capitale per qualsiasi «terrorista» che «uccida un israeliano per motivi razzisti e con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebreo nella sua terra». In vista del secondo passaggio alla Knesset si discutono i particolari. Smotrich ha affermato che la legge andrebbe applicata anche a un ebreo che lavora per conto dell’Iran. Lo Shin Bet, contrariamente alla tradizione, si è mostrato incline ad accettare il disegno di legge. L’esercito ha dichiarato di non volersi opporre, ma non ritiene che la pena debba essere obbligatoria. È una risposta alla posizione di BenGvir, propugnatore della corrispondenza fra condanna ed esecuzione, timoroso che la pavida interpretazione dei magistrati possa sottrarre il condannato all’iniezione fatale.