Processo Yaeesh, così un check point militare diventa «civile»
Aula ancora una volta piena di solidali e attivisti, alla Corte d’Assise di L’Aquila, per una nuova udienza del processo contro i tre palestinesi Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, residenti in Italia e qui accusati di associazione a delinquere con finalità di terrorismo, in riferimento ad azioni avvenute in un altro paese, la Cisgiordania occupata da Israele. IN AGENDA c’era l’ascolto dell’ambasciatore israeliano in Italia, ma senza che alcun cambiamento fosse comunicato alla difesa, dietro lo schermo di un computer, in collegamento da Parigi, ci si è ritrovati una funzionaria dell’ambasciata francese, Zaharira Bar Yehuda Etzion. La sua testimonianza è stata raccolta dopo le dichiarazioni spontanee di Yaeesh, che ha evidenziato il peso dato da una procura italiana a elementi e testimoni provenienti da un altro paese, lo stesso contro la cui occupazione Yaeesh è attivo nella sua militanza politica. SNODO centrale del processo è la natura dell’insediamento di Avnei Hefetz, oggetto di azioni per la cui ideazione o realizzazione sono accusati a diverso titolo gli imputati: in particolare è in discussione la sua qualificazione come insediamento colonico civile, piuttosto che base militare. LA QUESTIONE ha un peso specifico importante, dal momento che il diritto internazionale riconosce legittime le azioni, anche armate, contro avamposti militari di una potenza occupante; una certa difficoltà emerge tra l’altro anche nel poter considerare tout court un insediamento colonico come «civile»: si tratta infatti di luoghi scrupolosamente protetti da check point militari, dai quali spesso partono spedizioni armate a danno dei palestinesi – quelli sì, civili – della zona. LA TESTE è apparsa vaga nell’esposizione delle proprie tesi, mostrando poche certezze sulla natura di Avnei Hefetz. In particolare – aiutandosi con internet, dal quale ricercava di continuo nuove informazioni, e citando una fonte evidentemente di parte come l’ufficio statistico del governo – l’ufficiale israeliana ha avuto difficoltà a collocare Avnei Hefetz nel contesto geografico locale, e in quello storico relativo alla sua nascita; non ha saputo inoltre render conto della presenza di check point militari a ridosso dell’insediamento, non ha fornito elementi rispetto alle aree speciali di sicurezza, né al sistema difensivo, e non è stata in grado di smentire la possibilità che vi agiscono coloni copiosamente armati. Non è riuscita, in sostanza, a smentire la possibilità che l’Avnei Hefetz di cui si parla nelle intercettazioni sia una base militare. «L’ATTEGGIAMENTO della teste, richiamata più volte anche dello stesso presidente della Corte – ha dichiarato Flavio Rossi Albertini, che con Ludovica Formoso compone il collegio difensivo – ha evidenziato tutta l’arroganza che lo stato di Israele sta assumendo nei confronti dell’autorità giudiziaria italiana». PRIMA della convocazione della prossima udienza per il prossimo venerdì, la pm D’Avolio ha chiesto che venissero messe agli atti immagini satellitari scaricate da Google Maps, che evidenzierebbero l’assenza di avamposti militari nell’area. Anche in questo caso, sembrerebbe bastare una semplice analisi comparativa, fatta con software open-source (uno dei più noti è MapCarta), per mostrare scenari diversi. CIÒ CHE VA segnalato, tuttavia, è che la svolta tanto auspicata dall’accusa per demilitarizzare la natura di Havnei Hefetz non è avvenuta, qualificando sempre più questo dibattimento come un processo alla resistenza palestinese, legittima secondo l’ordinamento internazionale, ma non abbastanza per la procura di L’Aquila. Si attende ora la sentenza, prevista per il 19 dicembre.