Se gli estremismi si alimentano e si normalizzano la perdita totale del pudore è dietro l`angolo

L’articolo analizza come tre fenomeni apparentemente distanti—il suprematismo bianco, l’ambiguità del progressismo radicale verso Hamas, e il fondamentalismo dei coloni israeliani—si alimentino a vicenda, erodendo la convivenza democratica e portando a una “perdita totale del pudore”. L’autore critica la frangia della sinistra occidentale che trasforma la legittima critica a Israele in indulgenza verso la violenza di Hamas, mitizzata come movimento “decoloniale”. Il vero pericolo è individuato nella normalizzazione operata dai moderati che scelgono il silenzio, trasformando gli estremisti in un’opzione possibile nel discorso pubblico. L’articolo chiama a ricostruire un “centro morale” in grado di dire “no” ai propri estremismi, sottolineando l’irresponsabilità del minimizzare questi fenomeni.

La presenza simultanea di tre fenomeni — il suprematismo bianco nel Partito Repubblicano, l’ambiguità del progressismo radicale verso Hamas e il fondamentalismo dei coloni israeliani — può sembrare un accostamento forzato. Eppure, osservandoli insieme, emergono dinamiche comuni: ideologie assolutiste, identitarie, che si rafforzano a vicenda e che corrosivamente erodono la convivenza democratica. La prima similarità è la perdita totale del pudore. Dove un tempo c’era prudenza nel mostrare il proprio estremismo, oggi prevale l’orgoglio. I suprematisti bianchi non si nascondono più dietro la “sicurezza”: proclamano apertamente posizioni razziste, e una parte del Partito Repubblicano, pur senza aderirvi, ne tollera la presenza per convenienza politica. Allo stesso modo, in una frangia della sinistra occidentale, la critica legittima a Israele diventa indulgenza verso la violenza di Hamas, trasformata in mito “decoloniale”. Nei territori occupati, gruppi radicali di coloni agiscono ormai senza freni, forti dell’ambiguità o della protezione di parte dell’attuale governo. Questi estremismi si alimentano reciprocamente. Il suprematista americano usa la violenza dei coloni come alibi per il proprio antisemitismo; il colono radicale usa la brutalità di Hamas per giustificare l’occupazione; Hamas usa umiliazioni e abusi come prova della necessità della lotta armata. Ognuno trova nell’altro la conferma del proprio fanatismo. È un circuito perfetto di eccessi che generano contro-eccessi. Ma il vero pericolo è la normalizzazione operata dai moderati che scelgono il silenzio. Nel Partito Repubblicano, figure che un tempo avrebbero condannato il suprematismo oggi si rifugiano in frasi evasive. Nel mondo progressista, alcuni evitano di condannare chiaramente gli atti terroristici di Hamas per paura di sembrare filo-israeliani. In Israele, settori della destra difendono o minimizzano gli abusi dei coloni, trasformando comportamenti illegali in “autodifesa”. Quando i moderati tacciono, gli estremisti smettono di essere marginali: diventano un’opzione possibile, parte del discorso pubblico. E così le società perdono la capacità di riconoscere la complessità, sostituendola con la seduzione delle verità pure e assolute. Dove domina la logica tribale — paura, sospetto, appartenenza — la democrazia si indebolisce. Nessuna società può permettersi di ignorare i propri estremismi interni. Non può farlo il Partito Repubblicano con il suprematismo bianco; non può farlo la sinistra con il fondamentalismo “decoloniale”; non può farlo Israele con i coloni radicali che minano la legalità dello Stato. Minimizzare questi fenomeni non è solo miope: è irresponsabile. Perché mentre i moderati esitano, gli estremisti avanzano, impongono linguaggi, simboli e agende. Ricostruire un centro morale in grado di dire “no” ai propri, prima ancora che agli avversari, è l’unico vero antidoto alla radicalizzazione. Il destino di una società non si misura dalla presenza degli estremi — che esisteranno sempre — ma dal coraggio dei moderati. Se questo coraggio scompare e la normalizzazione del fanatismo avanza, allora il terreno comune si dissolve, lasciando solo identità contrapposte, ciascuna pronta a prevalere sull’altra, “dal fiume al mare”, qualunque sia il fiume e qualunque sia il mare.

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