Il 1946: l’anno dimenticato della violenza antiebraica

22 Novembre 2025 alle 18:36

Nel 1946, l’Europa avrebbe dovuto essere il continente della ricostruzione. Per gli ebrei sopravvissuti alla Shoah, fu invece l’anno in cui l’antisemitismo riemerse in modo sistematico e documentato. Non si trattò di episodi isolati: tra il 1945 e il 1947, i registri amministrativi polacchi contano 103 pogrom. In totale, tra Polonia, Ungheria, Slovacchia e Cecoslovacchia, si registrarono oltre 1.500 vittime, tra morti e feriti. Kielce, con i suoi 42 ebrei uccisi il 4 luglio 1946, è rimasto il caso più noto. Ma è solo l’episodio più visibile di un fenomeno molto più ampio.

A Topoľčany, in Slovacchia, il 24 settembre 1945 un pogrom provocò 47 feriti e un morto. A Kunmadaras, in Ungheria, il 21 maggio 1946, un attacco contro ebrei rientrati nelle loro case causò 4 morti e 15 feriti. A Miskolc, il 1° agosto 1946, altre aggressioni portarono a 2 morti e 10 feriti. A Cracovia, i linciaggi contro i sopravvissuti tornati nel proprio quartiere, il Kazimierz, mostrarono quanto la guerra non avesse affatto cancellato l’antisemitismo. La dinamica era ricorrente e riconoscibile: ritorno → ostilità → aggressione → fuga. E dietro queste violenze, c’erano elementi strutturali che i documenti del dopoguerra registrarono con precisione.

Le proprietà ebraiche in Europa orientale erano state confiscate quasi ovunque: 94% in Polonia, 96% in Ungheria, 92% in Romania, 89% in Cecoslovacchia. Le leggi postbelliche resero quasi impossibile il recupero delle abitazioni: nel 1950 le restituzioni effettive non superavano il 3%. In questo contesto, il rientro degli ebrei era vissuto come una minaccia concreta a una redistribuzione già avvenuta e consolidata. Nell’estate del 1946, queste tensioni esplosero: oltre 100.000 ebrei lasciarono la Polonia in tre mesi, spinti non da un progetto migratorio, ma da una necessità di sopravvivenza. She’erit Hapletah — il “resto scampato” — comprese rapidamente che il dopoguerra non offriva né protezione né un ritorno possibile.

Il 1946 ci consegna dunque un quadro chiaro e spesso rimosso: la Shoah non si concluse con la fine della guerra. Continuò nelle violenze contro chi tornava, nell’impossibilità di recuperare una casa, nell’ostilità sociale che trasformò la presenza dei sopravvissuti in un problema. Ricordare questo significa riconoscere che il dopoguerra europeo non fu soltanto ricostruzione. Fu anche un nuovo ciclo di persecuzioni, documentato e capillare, che costrinse migliaia di ebrei a lasciare l’Europa che li aveva già espulsi una volta.

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