Le radici dell’ostilità: perché il dopoguerra non fu un nuovo inizio

24 Novembre 2025 alle 11:37

Nella narrazione pubblica, il 1945 segna una frattura netta: la fine della guerra, la caduta del nazifascismo, il ritorno alla vita civile. Eppure, per comprendere davvero ciò che accadde agli ebrei sopravvissuti, questo schema è del tutto insufficiente. Il dopoguerra ebraico non nacque nel vuoto: riemerse da un continente che, anche durante il conflitto, aveva mostrato un diffuso disinteresse nell’impedire l’annientamento totale degli ebrei. È da questa premessa, oggi ignorata, che bisogna partire per comprendere perché il 1945 non coincise con una vera liberazione.

L’Europa non ha mai davvero accettato gli ebrei come parte integrante del proprio tessuto sociale. Gran parte delle istituzioni che oggi celebrano il Giorno della Memoria, durante il secondo conflitto mondiale adottarono politiche di chiusura, rifiuto e indifferenza verso di loro. Il caso più noto è quello britannico. Con il Libro Bianco del 1939, si limitò drasticamente l’ingresso degli ebrei in Palestina — 75.000 in cinque anni — proprio quando avrebbero avuto più bisogno di un viatico per salvarsi la vita. Una precisa e consapevole decisione politica che, di fatto, lasciò centinaia di migliaia di persone intrappolate nell’Europa dello sterminio – i cui contorni erano noti già dal 1942. Allo stesso modo, nonostante i rapporti diplomatici, le comunicazioni clandestine e le testimonianze dei primi fuggitivi avessero dimostrato l’ampiezza del genocidio in corso, le democrazie occidentali esitarono nel mettere in campo operazioni di salvataggio. Non fu solo un problema di distanza geografica, fu l’effetto dell’antisemitismo culturale radicato, che condizionò ogni tipo di intervento.

Questa storia di chiusure, rifiuti e responsabilità mancate non terminò nel 1945. Fu solo una premessa delle ostilità che i sopravvissuti avrebbero incontrato nel dopoguerra. L’Europa, entusiasta per la sconfitta del nazismo, di fronte alla realtà dello sterminio si rivelò dunque incapace di purificarsi dell’odio antiebraico. Le autorità locali temevano il ritorno dei sopravvissuti, perché ciò avrebbe causato l’apertura di questioni morali, politiche ed economiche. Come fare con le case occupate, i beni confiscati e con la connivenza che causò sofferenze atroci a tanta gente? In molti Paesi, le percentuali di proprietà ebraiche confiscate superavano il 90% — 94% in Polonia, 96% in Ungheria, 92% in Romania, 89% in Cecoslovacchia — ma le restituzioni effettive, nei cinque anni successivi alla liberazione, non superarono il 3%. E, quel poco, si ottenne spesso contro la volontà delle autorità locali.

Il dopoguerra fu dunque segnato dalla stessa logica di esclusione che aveva preceduto e accompagnato lo sterminio. I sopravvissuti che provarono a rientrare nelle proprie città, trovarono porte chiuse, ostilità e intimidazioni. Ecco perché molti di loro furono costretti a entrare nei Displaced Persons Camps. Infatti, il numero degli ebrei nei DP Camps passò dai 180.000 del 1945 ai 250.000 del 1946. Il bisogno di ordine amministrativo, la difficoltà di distinguere vittime e collaboratori, l’incapacità di offrire alternative concrete trasformarono i campi in un prolungamento della prigionia. Questa settimana racconteremo le premesse storiche utili per far luce sul dopoguerra ebraico.

Perché il 1945 non segnò la fine dell’odio antiebraico, ma il suo riassestamento in forme nuove: rimozione, ostilità, restituzioni mancate, violenza diffusa, amministrazioni incapaci o non disposte a riconoscere ai sopravvissuti un posto nel mondo che li circondava. Riprendere la memoria significa illuminare queste zone d’ombra, restituire complessità a un racconto troppo spesso semplificato e riconoscere che il dopoguerra non fu un epilogo ma un prolungamento della tragedia. Solo così la memoria diventa uno strumento critico, e non un rito che consola senza spiegare.

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