La cultura non divide, unisce: il Progetto DAVKA

di Redazione - 24 Novembre 2025 alle 12:43

In occasione del Tour Autunnale di Progetto DAVKA (Roma 29 novembre, Padova il 30 le prime date), ho intervistato Maurizio Di Veroli, un ebreo romano che tenta, nonostante il frastuono mediatico, oltre che bellico e geopolitico, di ricostruire un’armonia possibile attraverso la musica. Nel 2004 ha ideato Progetto DAVKA, per raccontare e divulgare la cultura ebraica attraverso le musiche tradizionali di questo popolo.

“I nostri spettacoli sono una sorta di viaggio sonoro all’interno della tradizione ebraica, ogni brano è una tappa, opportunità per raccontare uno spaccato di una civiltà troppo spesso fraintesa. Negli spettacoli raccontiamo le diverse tradizioni ebraiche nate dentro la diaspora e vive dentro Israele”.

Com’è composto il vostro gruppo?

“Da musicisti che appartengono a varie esperienze religiose e musicali. Io sono l’unico ebreo e sono la voce e il ricercatore. Esploro gli archivi alla ricerca di melodie che mi permettano di raccontare la cultura del mio popolo, ma i musicisti che collaborano con me vivono esperienze spirituali diverse dalla mia. E proprio perché la cultura ebraica non è convessa, ma tende a integrare e dialogare con l’alterità, si crea un melting pot di suggestioni musicali, e a volte esistenziali, che armonizzano le nostre sensibilità”.

Parlami dei canti che ami di più

“Ascolto ogni genere musicale, comprese le etnie più lontane, la musica sublima le differenze e rivela peculiarità straordinarie. I canti che eseguiamo accadono in tante lingue, viaggi sonori dentro le geografie lontane e sorprendenti della diaspora. Forse quello che più amo è un antico canto sefardita, che ho contribuito a riarrangiare: Cuando el rey Nimrod. Nimrod era il Re costruttore della Torre di Babele. Un canto ladino che parla della nascita di Abramo, interessante perché rivisitato con narrazioni e sonorità dell’Europa orientale. Abramo è nostro patriarca, ma anche quello degli altri due monoteismi. Questa comune radice ha consentito a me e a un cantante tunisino musulmano di eseguirlo insieme nella Sala Nervi in Vaticano, nel 2019. Mettere assieme tanti diversi modi di credere e sentire è un continuo laboratorio di possibilità di pace”.

Parlami del tuo lavoro di oggi, delle tue speranze

“Il nostro ultimo spettacolo si chiama tiqqun, che significa riparazione. Canti che raccontano come l’ebraismo tenti di curare le ferite del mondo attraverso i valori della tradizione. L’idea è che, visto il periodo, speriamo si resca a riparare il rapporto fra il popolo ebraico e tutti gli altri, un rapporto turbato dalla paura e da antichi pregiudizi. La speranza è che l’armonia non solo musicale, ma umana, si possa propagare a livello globale. La musica è anche maestra di silenzio, e oggi più che mai bisogna mettersi in ascolto, senza pregiudizi. Mi reco in Israele da quando ero bambino, parlo anche un po’ di arabo, e posso ascoltare i racconti di arabi musulmani, drusi, cristiani, che vivono da non ebrei all’interno dello Sato ebraico. Quella varietà di ricchezze di vita quotidiana è come una musica meravigliosa lasciata in sordina da una sovranarrazione che polarizza e alimenta conflitti e pregiudizi. Ma a chi sa tendere l’orecchio la melodia della pace può ancora parlare, e questo è il mio sogno più grande: far risuonare quel canto di speranza sempre più forte, fino a mettere in sordina l’antisemitismo e la guerra”.

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di Clelia Castellano

Il grande archivio di Israele

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