Intervsta a Khaled Abu Toameh: «Hamas è ancora in piedi Fallimento politico»
L’intervista più rilevante della giornata: Abu Toameh evidenzia come l’incapacità di eliminare Hamas riveli un fallimento politico oltre che militare. Mette in luce la necessità di una leadership palestinese non jihadista e di una strategia israeliana chiara per il “dopo”, restituendo al conflitto una dimensione politica troppo spesso assente nel dibattito.
«Dopo due anni di guerra Hamas è ancora in piedi. Un fallimento strategico e politico», parla Toameh K haled Abu Toameh è uno dei più autorevoli giornalisti arabi israeliani. Per venticinque anni è stato una delle firme di punta del Jerusalem Post, diventando il riferimento occidentale più affidabile per comprendere la politica palestinese, le dinamiche interne dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’evoluzione di Hamas. Ha lavorato come producer per i grandi network televisivi americani in Medio Oriente — NBC, BBC, 60 Minutes, tra gli altri — accompagnando le principali testate internazionali nei territori palestinesi e offrendo analisi considerate tra le più lucide e coraggiose. È celebre per le sue interviste esclusive ai protagonisti della storia palestinese. Khaled Abu Toameh è uno dei più autorevoli giornalisti arabi israeliani. Per venticinque anni è stato una delle firme di punta del Jerusalem Post, diventando il riferimento occidentale più affidabile per comprendere la politica palestinese, le dinamiche interne dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’evoluzione di Hamas. Ha lavorato come producer per i grandi network televisivi americani in Medio Oriente — NBC, BBC, 60 Minutes, tra gli altri — accompagnando le principali testate internazionali nei territori palestinesi e offrendo analisi considerate tra le più lucide e coraggiose. È celebre per le sue interviste esclusive ai protagonisti della storia palestinese: da Yasser Arafat ad Abu Mazen, fino al fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin. Il suo lavoro combina conoscenza diretta dei centri di potere palestinesi, rigore giornalistico e un raro coraggio personale nel raccontare ciò che molti evitano di dire apertamente. Lei segue la politica palestinese da oltre quarant’anni. Il 7 ottobre l’ha sorpresa oppure no? «Mi ha sorpreso il tempismo, non l’ideologia. L’attacco è arrivato mentre Israele allentava il blocco, aumentava i permessi di lavoro, entravano soldi e investimenti a Gaza. Tutti dicevano che Hamas fosse dissuaso da un nuovo conflitto. Se mi avessero chiesto due settimane prima le probabilità di guerra, avrei risposto: zero». Che cosa l’ha colpita di più nel modo in cui l’attacco è stato lanciato? «La brutalità dei crimini. Ho visto due Intifade, ma il 7 ottobre ho visto cose mai viste. Guardando i video insieme ai colleghi ho capito dall’accento che quegli uomini venivano da Gaza. E in tutto quel materiale non ho trovato un solo palestinese che dica al gruppo: “Fermiamoci, lì c’è una famiglia”». Dov’erano l’esercito e l’intelligence israeliana quel giorno? «Non ho risposte soddisfacenti. C’erano poche centinaia di soldati, la tecnologia – telecamere, sensori, satelliti – non ha funzionato. Si aspettavano forse una piccola infiltrazione, hanno mandato forze ridotte, finite in imboscate. È il frutto anche di anni di arroganza: per anni ho riportato le minacce di Hamas e molti israeliani mi dicevano che non avrebbero mai osato». Perché allora dice che, in fondo, non è rimasto sorpreso? «Perché Hamas ha fatto esattamente ciò che promette dal 1987: jihad per sostituire Israele con uno Stato islamico. Ho intervistato quasi tutti i loro leader: sono sempre stati chiari. Rapimenti, omicidi, attentati suicidi, razzi – il 7 ottobre, per loro, è solo una nuova fase, lo stesso “From the river to the sea” che oggi si sente nelle piazze occidentali». Quanto pesa l’incitamento religioso e politico dentro la società palestinese? «È enorme e dura da decenni. Moschee, media, scuole, social diffondono l’idea che gli ebrei siano malvagi, che profanino moschee e rubino la terra. Non è solo Hamas: nel 2015 Abbas parlò di “piedi sporchi” degli ebrei su al-Aqsa e di sangue “puro” versato per la moschea. Due settimane dopo iniziò un’ondata di accoltellamenti. Intanto la moschea è ancora in piedi». Che cosa significa davvero lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” che sentiamo nelle piazze occidentali? «È uno slogan di Hamas. La prima volta l’ho sentito alla fine degli anni Ottanta a Gaza; la seconda su un campus in Canada, gridato da ragazzi che non erano palestinesi. Quando ho chiesto a Khaled Abu Toameh cosa volessero fare degli ebrei non sapevano rispondere. Molti attivisti occidentali non sanno dov’è Ga2a né cos’è Hamas: spesso è più odio verso Israele che solidarietà vera con i palestinesi». Perché dice che i soldi non bastano a moderare Hamas o la società palestinese? «Perché il denaro calma solo per poco. Prima del 7 ottobre Ga2a aveva ristoranti di lusso, cantieri, soldi da Qatar, Europa, Israele. Le due Intifade sono esplose in fasi di crescita economica. Ho studiato molti attentatori suicidi: avevano casa di proprietà, erano studenti, professionisti. Il problema è l’educazione: se a casa e in TV ti ripetono che gli ebrei sono demoni, i 10.000 dollari al mese non cambiano il risultato». I palestines capire che Qual è, alla fine, la vera costruire u natura del conflitto israelo-palestinese secondo lei? sulla Jihad «Non è solo un problema di checkpoint o di insediamenti. Il nodo è che molti nel mondo arabo-musulmano non accettano il diritto di Israele a esistere. Per molti palestinesi Israele è un unico grande “insediamento” da liberare. I due campi interni chiedono entrambi il 100%: o del 1948 o del 1967. Israele realisticamente può offrire meno, ma non vedo un leader palestinese disposto ad accettarlo». Che ruolo hanno i regimi arabi in questa radicalizzazione? «Per anni molti leader arabi hanno usato l’odio verso Israele come distrazione dalle proprie responsabilità. Hanno incitato le masse e ora la gente è più radicale di loro. Con poche eccezioni – Emirati e Bahrein – nessuno dice ai palestinesi che servono concessioni. Intanto in Cisgiordania e a Gaza la gente è governata da mafie e bande: Hamas è terribile, ma l’Autorità palestinese non è molto meglio, l’OLP si comporta da mafia. E a Ga2a non c’è solo Hamas: ci sono almeno una dozzina di gruppi armati». Se la minaccia è esistenziale, qual è la risposta legittima di Israele a un attore come Hamas? «Se qualcuno si piazza davanti a casa tua dicendo che vuole rapire i tuoi figli e bruciarti vivo, non puoi semplicemente aspettare. Hamas ripete che Israele non ha diritto di esistere: non capisco perché Israele non possa dire lo stesso su Hamas. Allo stesso tempo, dopo due anni di guerra Hamas è ancora in piedi: molte capacità militari sono state distrutte, ma l’organizzazione resta e si negozia ancora con lei sul futuro di Gaza. Per me è un fallimento strategico e politico». Che lezione dovrebbero trarre Israele, i palestinesi e l’Occidente? «Israele deve smettere di sottovalutare un nemico che dice apertamente cosa vuole fare. I palestinesi devono capire che non si può costruire un futuro su Jihad, martirio e rifiuto assoluto di ogni compromesso. E l’Occidente deve smettere di illudersi che bastino assegni o slogan: senza cambiare l’educazione e senza leader coraggiosi, continueremo a girare in tondo tra nuove illusioni e nuova violenza».