La nuova scusa per la violenza: a Bologna la solidarietà per la Palestina diventa copertura per ordigni letali
di Paolo Crucianelli - 26 Novembre 2025 alle 12:08
Gli scontri avvenuti domenica sera a Bologna, in occasione della partita di basket tra la Virtus e il Maccabi Tel Aviv, segnano un salto qualitativo estremamente preoccupante nella violenza politica di piazza in Italia. Non si è trattato delle solite cariche, né dei consueti lanci di bottiglie o pietre: tra i manifestanti sono comparsi ordigni artigianali costruiti sul modello delle bombe a mano a frammentazione, ottenuti inserendo chiodi e biglie metalliche all’interno di bombe carta ad alta potenza. Una vera e propria arma da guerra, potenzialmente letale.
Le conseguenze lo dimostrano. Due agenti del Reparto Mobile, pur equipaggiati con le protezioni anti-sommossa, sono rimasti gravemente feriti: uno ha riportato una lesione profonda al piede, l’altro – colpito all’inguine – rischierebbe di perdere per sempre la capacità di procreare. È sufficiente immaginare cosa sarebbe accaduto a un passante, a un residente, a un lavoratore, a chiunque non indossasse armature o caschi.
La manifestazione era formalmente una protesta “pro-Palestina” o “anti-Israele”. Ma la dinamica, l’organizzazione e la violenza impiegata mostrano una realtà completamente diversa: la causa palestinese è divenuta la nuova parola d’ordine dietro cui si riparano frange estremiste, anti-governative, anti-occidentali e profondamente antagoniste. Un’etichetta utile a legittimare qualsiasi azione, in qualsiasi contesto.
Ormai lo schema è chiaro: non importa l’occasione – una partita sportiva, un concerto, una lectio magistralis universitaria – basta che compaia la parola Israele, o anche soltanto un nome ebraico, perché gruppi strutturati dei centri sociali organizzino cortei, assedi, intimidazioni. E quando Israele non c’entra nulla, quando la manifestazione ha tutt’altra motivazione, non importa: chi rompe tutto e assalta la Polizia sostiene comunque di agire “in nome della Palestina libera”, trasformando qualunque spazio pubblico in terreno di scontro ideologico.
Le forze dell’ordine indicano da tempo la provenienza degli agitatori: aree estremiste dei centri sociali, in questo caso bolognesi, già note per organizzazione, capacità operativa e disponibilità alla violenza. In alcune ricostruzioni giornalistiche, tra cui un servizio televisivo andato in onda nella trasmissione di Nicola Porro, è stato citato anche il possibile coinvolgimento di elementi gravitanti nell’area del centro sociale Labas. Una circostanza che, se confermata, aprirebbe un capitolo politico di enorme rilievo. È utile non dimenticare che lo scorso settembre il centro sociale Labas ha ospitato Francesca Albanese per la presentazione del suo libro, accolta con tutti gli onori proprio dal sindaco Matteo Lepore.
Il primo cittadino di Bologna ha assunto, riguardo la partita Virtus-Maccabi, una linea che molti hanno interpretato come una concessione preventiva agli ambienti filo-palestinesi più radicali. Invece di rivendicare il diritto della squadra israeliana a competere liberamente, ha proposto di rinviare la partita per timore di disordini. Una posizione che, nei fatti, avrebbe legittimato la pretesa dei gruppi antagonisti di vietare la presenza del Maccabi a Bologna. Una resa culturale prima ancora che istituzionale. Dopo l’accaduto, ha anche criticato il Viminale dicendo: “Scontri che si potevano evitare, c’è stata una gestione sconsiderata da parte del ministro Piantedosi”.
Il punto non è solo l’ordine pubblico. È il messaggio. Se la violenza viene tollerata, giustificata o minimizzata ogni volta che si avvolge in una bandiera palestinese, allora queste frange criminali capiranno di poter alzare ulteriormente il livello dello scontro. E gli ordigni riempiti di chiodi potrebbero non essere l’ultimo, sciagurato passo, ma il primo.
La democrazia si misura nel momento in cui è messa alla prova. E a Bologna, domenica sera, non è stata Israele a essere sotto attacco: è stata l’idea stessa che in Italia si possa giocare, parlare, insegnare o semplicemente vivere senza il permesso delle minoranze più violente ed estremiste.