Il limbo di Gaza, invivibile e invisibile

Questo pezzo è l’esempio di propaganda anti-israeliana estrema. L’autrice definisce la strategia di Israele come “invivibilità” per Gaza, un vero e proprio “genocidio silenzioso”. L’articolo apre con una citazione decontestualizzata e manipolatoria di Tally Gotliv (Likud) – “Possiamo attaccare senza pietà, senza pietà, senza pietà” – per rafforzare l’immagine di un Israele disumano e implacabile. Viene accusato Israele di seguire il “metodo Libano” (tregua sulla carta con violazioni costanti) e di perseguire una “strategia politica volta a generare il caos” e garantirsi “impunità eterna”. Si tratta di una narrazione puramente ideologica che cancella la realtà del terrorismo di Hamas e del 7 ottobre, riducendo un conflitto complesso a una mera strategia di “supremazia sulla terra”, senza fondamento fattuale pluralistico.

Tally Gotliv, deputata del Likud, il partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyhu, lo ha ripetuto tre volte in diretta tv. Voleva che il messaggio fosse chiaro, implacabile come il tono della sua voce in crescendo: «Non abbiamo più ostaggi e, con gli ultimi tre corpi in rientro, non dobbiamo più essere precisi. Possiamo attaccare senza pietà, senza pietà, senza pietà». Non serviva Tally Gotliv a comunicarci che l’offensiva israeliana a Ga2a non è mai terminata, ma parole come le sue sono utili a comprendere cosa ha mosso e cosa muove le autorità israeliane da 25 mesi e ottant’anni a questa parte: la supremazia sulla terra, volta alla sua definitiva conquista, passa per la disumanizzazione di chi si considera alieno e immeritevole, appunto, di pietà. Se mai venissero ascoltate da questa parte del mare, quelle parole dovrebbero servire a risvegliare coscienze già assopite. Dovrebbero servire a resuscitare un’attenzione che, nelle cancellerie occidentali, non si vedeva l’ora di spegnere intorno a quanto avviene in Palestina. L’entusiasmo con cui è stato accolto il liberticida accordo di «pace» trumpiano non trova altra spiegazione se non la pressante necessità di mettersi tutto alle spalle, genocidio e complicità. L’offensiva prosegue, ora più indisturbata che mai. Sotto altre forme e identiche politiche: se non si assiste più a bombardamenti a tappeto (seppur i palestinesi vengano uccisi ancora a decine), Israele continua a perseguire la strategia dell’invivibilità. Rendere Ga2a un luogo inadatto alla vita, un genocidio silenzioso. I bulldozer non hanno spento i motori: oltre la linea gialla che cambia perimetro ogni giorno, apparentemente randomica, mangiando metro per metro il territorio a disposizione dei palestinesi – l’esercito israeliano e le compagnie private vincitrici di appalto stanno demolendo quel poco che restava in piedi. Intanto, al di qua della linea gialla, i camion umanitari appaiono con il contagocce, non c’è ricostruzione all’orizzonte per precisa volontà israelo-statunitense e i poveri rifugi improvvisati vengono sommersi da pioggia e fango. Israele sta applicando un modello che ritiene di successo, il metodo Libano: tregua sulla carta e violazioni costanti e quotidiane per cementare una feroce guerra di attrito il meno visibile possibile. L’obiettivo è il limbo, una sospensione nominale della guerra che si traduce nella sospensione in cui viene costretta la popolazione aggredita. Non è nemmeno una tattica militare, è una bassa strategia politica volta a generare il caos, a cementare l’assenza permanente di una soluzione politica e a garantirsi impunità eterna (la stessa certificata a Sharm el Sheikh dall’entusiasmo di cui sopra). La stessa strategia, sotto altre forme, Israele la sta portando avanti in Cisgiordania: le operazioni militari, le chiusure, le violenze feroci e fasciste dei coloni, le demolizioni di case e le confische di terre servono non solo a prendere più terra possibile ma anche a sfilacciare e inibire qualsiasi rete politica, economica e sociale palestinese. Serve a spezzettare, ancora e ancora, territori già divisi, che lo si faccia tracciando una linea gialla mobile o chiudendo intere comunità dietro reti e fili spinati, prigioniere degli assalti omicidi di coloni e soldati. Privare della casa assume così un significato ben più profondo: la rimozione del luogo di vita serve a strappare via la dignità, a umiliare, a ricordare che non c’è eguaglianza ma c’è un superiore e c’è un subalterno. Rendere invivibile un luogo individuale e collettivo, la casa come la città, persegue un obiettivo più alto, strutturale: sfibrare l’umano e sfibrare la comunità, farne gusci vuoti, imporre le necessità di sopravvivenza a scapito di quelle di vita piena. La guerra che non cessa mai, il limbo, l’utopia effimera di un orizzonte di normalità: non è una tattica militare, è una strategia politica.

Il grande archivio di Israele

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