Il libro
Israele, quello Stato “fondato sulla sabbia”. Momigliano: “Lo accompagna un’ansia esistenziale. Erano pionieri, oggi sono dirigenti ridimensionati”
di HaKol - 27 Maggio 2025 alle 14:15
«Fondato sulla sabbia» (Garzanti) è il titolo del nuovo libro di Anna Momigliano, giornalista esperta di questioni israeliane e testimone dell’evoluzione del Paese negli ultimi vent’anni.
Partiamo proprio dal titolo, Momigliano. È suggestivo, ma la sabbia suggerisce fragilità.
«Ammetto che non è farina del mio sacco. È una citazione di Ari Shavit, l’autore di “My Promised Land”, quando dice: “Abbiamo costruito le nostre case sulla sabbia”. Si riferisce agli insediamenti sionisti dei primi anni, prima ancora della fondazione dello Stato di Israele (ai tempi del Mandato britannico, 1920-’48, ndr). Erano pionieri che costruivano nel deserto, fondavano comunità agricole, ma sempre con l’idea che tutto potesse crollare da un momento all’altro».
Questa precarietà non è ancora passata?
«Questa ansia esistenziale la accompagna tuttora. In parallelo alle minacce esterne, procedono le contraddizioni interne nel Paese fragile, a rischio di implosione. Lo vediamo anche nella sua conformazione territoriale. In Cisgiordania, sulle rive del Mar Morto, il terreno sta sprofondando a causa di un dissesto idrogeologico. Mi viene da accostare quelle sinkholes, le voragini nella sabbia, un fenomeno geologico reale, alle crepe che attraversano oggi la società israeliana».
Parliamo delle contraddizioni che stanno cambiando il Paese. Quali sono e dove porteranno Israele?
«Israele porta con sé una contraddizione fondativa. La Dichiarazione di indipendenza del 1948 dice che Israele sarà uno Stato ebraico e democratico. Ma una componente etnica e la democrazia non sono due princìpi che, per quanto non proprio in contraddizione, sono comunque in tensione tra loro. E questa tensione diventa ancora più profonda se consideriamo che Israele nasce in un territorio dove vivono altri popoli, in particolare i palestinesi, che non sono ebrei e che, fin dall’inizio, non sono parte della narrazione nazionale. Questa contraddizione iniziale, nel tempo, si è ampliata a causa di trasformazioni interne. Israele è cambiata molto soprattutto dal punto di vista demografico. Gruppi che prima erano ai margini, come i nazional-religiosi e gli ultraortodossi (due realtà distinte), oggi rappresentano una fetta sempre più ampia della popolazione. E in questa fase storica sono anche politicamente alleati, con un’influenza significativa».
Quanto incidono questi mutamenti sociali sulla cultura politica del Paese?
«L’etno-nazionalismo è diventato molto più presente nel mainstream culturale. Tuttavia, il sistema democratico israeliano sta subendo una pressione enorme anche da altri fronti. La riforma giudiziaria proposta dal governo Netanyahu ne è un esempio. Non si tratta di un intervento tecnico sul funzionamento dei tribunali, ma di un insieme di leggi che, in sostanza, permetterebbero al governo di aggirare i meccanismi di bilanciamento dei poteri già deboli nel sistema israeliano».
Perché già deboli?
«Perché per esempio in Israele non c’è una vera e propria Costituzione. Ci sono le Leggi fondamentali, d’accordo. Ma sono un’altra cosa. Il potere esecutivo e quello legislativo, a loro volta, sono quasi sempre allineati, quindi non si controllano a vicenda. Di fatto, l’unico potere che può esercitare un controllo sull’esecutivo è quello in mano alla Corte Suprema. Ma se si indebolisce anche quello, non resta più alcun contrappeso».
E allora parliamo di cosa sta succedendo alla Corte Suprema. Ha ancora una funzione di argine oppure è allineata al governo?
«È un corpo in trasformazione. C’è chi dice che stia diventando più indulgente nei confronti delle posizioni della destra religiosa e nazionalista. È stato persino nominato un colono come giudice. A fianco a uno arabo. Tuttavia, non si è ancora compiuto del tutto il passaggio. In generale, le istituzioni stanno cambiando, ma non sono ancora totalmente allineate alla visione ideologica del governo. Siamo molto vicini a quel punto di svolta, ma non lo abbiamo ancora superato».
Cosa sta succedendo invece nei Servizi segreti e nell’Esercito?
«Questo è un punto interessante. Fino a poco tempo fa, i servizi di sicurezza, come lo Shin Bet, erano molto scettici nei confronti della visione di Netanyahu, perché la consideravano poco strategica. Ora, però, pare che il premier stia riuscendo a nominare un nazionalista religioso (David Zini, ndr). Si tratta di un cambio di paradigma».
E la vecchia classe dirigente, quella che ha fondato Israele? Che fine ha fatto?
«La classe dirigente storica, quella composta da ebrei ashkenaziti, laici, socialisti e nazionalisti, vede il suo peso molto ridimensionato. Per mezzo secolo ha rappresentato l’élite del Paese. Oggi, in una società israeliana che è sempre più segmentata in blocchi identitari e religiosi, si sente ai margini. Sia in termini numerici sia di influenza politica».