L'intervista
Così Israele ha colpito l’Iran, Ely Karmon: “L’Iaf è chirurgica. Ora la capacità nucleare si gioca sul sito di Fordow”
di HaKol - 19 Giugno 2025 alle 10:35
«Israele ha colpito seriamente il regime, con il programma nucleare e l’apparato di sicurezza. Ma è ancora difficile parlare di crollo». Ely Karmon, decano dei ricercatori dell’International Institute For Counter-Terrorism – l’Ict di Herzliya – aggiorna il quadro delle operazioni.
Partiamo dal programma nucleare. Quali sono gli obiettivi colpiti?
«L’Aeronautica israeliana ha concentrato i suoi attacchi su Isfahan e, in particolare, sugli impianti di Natanz, dove la maggior parte delle centrifughe sarebbe stata distrutta. Ma non sappiamo se qui l’impianto sotterraneo sia stato neutralizzato, o se resti una minaccia. A sua volta, il sito sotterraneo di Fordow, dedicato all’arricchimento di uranio al 60% e che ospita molte delle centrifughe più avanzate, non è stato ancora attaccato. Molti esperti ritengono che spetti agli Stati Uniti, in possesso delle bombe bunker-buster necessarie per distruggerlo. Se Fordow venisse lasciato intatto, le capacità nucleari potrebbero essere recuperate in futuro. Colpite anche due centrali energetiche: Bushehr, probabilmente, e Bandar Abbas. Non si è trattato di un attacco sistematico all’infrastruttura energetica — che è molto estesa — ma di un’azione mirata. Si ritiene che i due siti fossero di supporto alle operazioni dei Pasdaran. Sono state distrutte anche 120 piattaforme di lancio per missili balistici a lungo raggio. Molte altre sono state trasferite a Teheran, ma lì identificate e colpite».
Della leadership del regime chi è ancora vivo?
«Secondo le notizie, 20-22 alti ufficiali dei Guardiani della Rivoluzione sarebbero stati uccisi, tra cui il nuovo comandante dei Pasdaran, Ali Shadmani, nominato dopo l’eliminazione del predecessore (Gholam Ali Rashid, ndr). Si riporta poi l’eliminazione, forse tramite autobomba, di 14 scienziati nucleari. È un grave colpo al capitale umano legato al programma nucleare, che si aggiunge alla distruzione degli archivi. È stata eliminata così un’importante “riserva di conoscenza”. Infine, martedì è stato annunciato l’hackeraggio del sistema bancario. Non è chiaro se Israele sia responsabile; fatto sta che il cyberattacco sta creando gravi disagi alla popolazione e all’immagine del regime».
Passiamo alle operazioni di Intelligence.
«Ci tengo a ricordare che, in passato, in un attentato contro uno scienziato – colpito mentre la moglie, che gli era vicino, era rimasta illesa – era stata utilizzata una mitragliatrice automatica installata e “truccata” già in teatro operativo. Questo per indicare l’esistenza di una rete altamente sofisticata, presente da anni sul posto e che si è riattivata dopo i raid della scorsa settimana. Alcuni attacchi contro le piattaforme mobili di lancio missili sono stati effettuati mediante droni a corto raggio, manovrati da unità di terra sotto copertura. Il regime, dal canto suo, ha diffuso un video sostenendo di aver scoperto dei laboratori usati per queste operazioni. Non è chiaro se siano autentici. Ha anche dichiarato di aver catturato e ucciso due presunti agenti israeliani. In realtà, si trattava attivisti dell’opposizione già detenuti».
In Italia ci si chiede come sia stato possibile che l’Intelligence israeliana sia stata così efficiente in questa operazione, ma abbia fallito nel prevedere il massacro del 7 ottobre.
«Domanda legittima. La strategia adottata dal governo, almeno dal 2014, dopo l’“Operazione Margine di Protezione”, ha alimentato un falso senso di sicurezza. All’epoca, Netanyahu aveva accettato un programma di sicurezza lacunoso, che avrebbe lasciato l’Intelligence a una sorta di “sonno operativo”. Il giorno del massacro non c’erano veri alert. I Servizi di sicurezza facevano affidamento quasi solo sull’Intelligence tecnologica. I rilevamenti erano disponibili, ma i vertici avevano sottovalutato le segnalazioni degli analisti di basso rango. Incluse quelle della sorveglianza al confine con Gaza, che avevano notato movimenti sospetti. Era stato costruito un muro sotterraneo da 2 miliardi di dollari, dotato di sensori avanzati. Hamas però ha usato piccoli droni. A Gaza c’erano poi poche forze di terra, perché la maggior parte era stata ridistribuita in Cisgiordania, sotto pressione delle forze politiche di estrema destra, secondo cui il vero pericolo veniva da lì. Cosa ancora più grave: i Servizi segreti avevano smesso di reclutare infiltrati tra le fila di Hamas. Fu un fallimento che ricorda quello della guerra del Kippur nel 1973, quando l’Intelligence non riuscì a prevedere l’attacco egiziano».
E per quanto riguarda il regime, ora cosa succede?
«L’obiettivo immediato era danneggiare il programma nucleare. Alcuni analisti valutano un ritardo di quasi un anno, altri meno. A mio avviso, l’unica via praticabile è una soluzione politica. L’amministrazione Trump, di fatto, ha dato via libera a Israele, pur fingendo di scoraggiarlo. Questo per ingannare Teheran. Ora gli Stati Uniti potrebbero puntare sulla pressione militare israeliana per riportare l’Iran al tavolo negoziale. Teheran avrebbe inviato segnali di disponibilità. Tuttavia, non ha ancora accettato di interrompere l’arricchimento di uranio. Del resto, è evidente che conservi un arsenale missilistico. Le difese aeree israeliane, forse supportate da sistemi americani e persino giordani, hanno intercettato la maggior parte degli attacchi, ma i missili che sono riusciti a penetrare lo scudo hanno causato danni significativi».
Possiamo parlare di regime change alle porte?
«Il regime è ancora al potere. In passato, l’opposizione interna e le minoranze di Baluchi, Azeri, Arabi e Curdi hanno sfidato il potere, ma la situazione non è ancora matura per una rivolta su larga scala. Se le condizioni dovessero peggiorare, come accadde durante la guerra Iran-Iraq, quando Saddam Hussein minacciò Teheran con armi chimiche e il 30% della popolazione fuggì, potrebbe esserci sì un crollo».