Non ci sono più i collaborazionisti di una volta

Non è Gaza sotto assedio, questo lo afferrerebbe anche un bambino di 9 anni, lo è invece Israele da 80 anni

di HaKol - 4 Agosto 2025 alle 16:24

Neanche i collaborazionisti sono più quelli di una volta. Un tempo ci fu Martin Heidegger, che siccome tedesco collaborazionista in senso stretto non era, si iscrisse al Nsdap (Partito nazional-socialista tedesco dei lavoratori) a maggio del 1933, dopo la presa del potere di Hitler. Una tessera che, detto con sopportabile malizia, gli fu forse utile per diventare rettore dell’università di Friburgo. Al «dottore» Tomaso Montanari non sappiamo cosa sia stato utile per diventare rettore dell’Università di Siena, sebbene per stranieri, ma possiamo congetturarvi quando a valle troviamo la sua campagna pubblicitaria dei sudari bianchi sporchi di sangue. Naturalmente «palestinese», forse più rosso di altri. Siena non è Friburgo, certo, il Magnifico non ha dovuto fare la gavetta con tipini fini come Husserl, vero, ma è la parola «rettore» quella che conta. E allora, rettore per rettore, diciamo che al «dottore Montanari» (pare ci tenga molto al titolo e noi lo accontentiamo) è toccata in sorte la Siena-per-stranieri, a noi invece è toccato lui e non un Heidegger qualsiasi. “O tempora, o mores”, citerebbe il professor Canfora.
Oggi i collaborazionisti sono tifosi
Ma cos’è un collaborazionista? La risposta canonica sarebbe: «È una persona che, durante l’occupazione militare del proprio Paese da parte di una potenza straniera o sotto un regime autoritario imposto da tale potenza, coopera attivamente con l’occupante o il regime imposto». Riadattandoci al contesto surreale del conflitto arabo-israeliano, dove tutto è ribaltato, dove si legge da destra verso sinistra o dal basso verso l’alto e spesso pure in diagonale, i collaborazionisti 4.0 diventano quelli che fanno il tifo, diffondono le idee, sgambettano in piazza, berciano nei microfoni o mimano alla tv la propria indefettibile costernazione, con le fattezze dell’isteria pre-freudiana, per il «genocidio» di Gaza. Con conseguente dannazione dei «soliti ebrei». Insomma, ci siamo capiti.

Non è Gaza sotto assedio, questo lo afferrerebbe anche un bambino di 9 anni; lo è invece Israele da 80 anni – volendo, sono circa tremila, ma non dilunghiamoci adesso – che fanno 28.800 (ventottomilaottocento) giorni durante i quali i pacifici popoli colonizzati, interni e/o confinanti, hanno provato a fargli la pelle H24, come si dice alla spiccia. Come oggi. I colonizzati sono alcune centinaia di milioni, i colonizzatori circa dieci, ecco perché quel bambino di 9 anni lo capirebbe.
Da Rebatet a Scurati e Raimo
Sono tanti i nostri collaborazionisti, troppi per una civiltà illusa di averle viste tutte sul finire del 1945: si sbagliava, nessuno poteva immaginare che il nazismo sarebbe risorto dalle meritate ceneri in cui fu ridotto grazie ai tanti «genocidi» degli Alleati (Dresda, Milano, Le Havre, Amburgo, Cassino, Berlino, Foggia…), certo non pensava che ricomparisse sotto le mentite spoglie del «Free Palestine from the river to the sea» e umanitarismi vari per liceali poco studiosi. Fino a 80 anni fa, i requisiti della preparazione, della qualità culturale o dello studio erano garantiti, quantomeno nel loro minimo sindacale. Soprattutto non si contraddiceva con la stessa disinvoltura di oggi il principio di realtà. Ora, per un Lucien Rebatet drammaticamente antisemita nello splendore di una prosa robusta nella Francia occupata dalla svastica, ci toccano gli Scurati, i Raimo e decine di altri pacifisti con la gola degli altri nell’Italia «okkupata» da premi letterari a catinelle e dalla religione Onu per razzisti in purezza come Albanese da Ariano Irpino, prossima candidata a qualcosa da qualche parte.

La codardia della nostra università, ad esempio, celebrata a Torino, all’Orientale di Napoli e in altri atenei, che pretende la rottura dei rapporti con Israele o altre stupide oscenità, è il cuore del nostro collaborazionismo, verosimilmente per le stesse ragioni di 80 anni fa. Con il suo discorso di rettorato, «L’autoaffermazione dell’Università tedesca», Heidegger invitava l’Università a conformarsi ai princìpi del nuovo regime hitleriano, implementando politiche antisemite all’interno degli atenei, come l’allontanamento di studenti e docenti ebrei, tra cui il suo ex maestro Edmund Husserl. Ma quello era Heidegger, mica Montanari, mica De Monticelli, mica Orsini; così come ancor prima ci fu un tragico Wagner che oggi deve vedersela con i trapper multi-tatuati pro-Gaza che fanno da base programmatica per la Cgil, il Pd e il quartierino sedicente progressista.

Un tempo avevamo il norvegese Knut Hamsun, premio Nobel per la Letteratura, fervente sostenitore del nazismo e di Quisling, il quale pensava che «sarebbe stato meglio per tutti gli ebrei essere riuniti in un Paese che potessero chiamare proprio, così che la razza bianca esclusiva fosse risparmiata da ulteriore mescolanza di sangue». Chiedeva sì uno Stato per loro ma solo per non infettarci tutti quanti. Un pari grado di Hamsun l’avevamo anche in Italia, si chiamava Dario Fo e, se non fosse premorto alla tragicommedia di questi tempi, il sospetto che sarebbe andato oltre Hamsun aderendo al «Free Gaza» – e, quindi, all’idea-progetto che gli ebrei manco un proprio Paese debbano avere – è abbastanza fondato. A compensazione di tanto irreparabile vuoto, abbondiamo di pianti umanitari di molti letterati da Al Jazeera inebriati.

Per un Robert Brasillach che diceva «Bisogna separare gli ebrei dalla nazione, bisogna deportare le famiglie, en bloc», o un Pierre Drieu La Rochelle convinto che «gli ebrei rappresentano la parte peggiore del liberalismo e della democrazia decadente, opposta all’Europa fascista che vogliamo costruire», la legge del contrappasso per analogia ci consegna oggi un Gad Lerner eternamente sdraiato sul lettino di Freud, o un Moni Ovadia per il quale il 7 ottobre è stata un’azione «pienamente legittima» perché «ribellarsi è diritto e dovere di un popolo occupato». A ben vedere, nessun collaborazionista culturale del nazismo riuscì a teorizzare con tanto slancio che potesse essere un’«azione pienamente legittima» aprire la pancia alle donne ebree incinte per decapitare il bambino, cavare gli occhi a genitori legati alla sedia davanti a figli che riceveranno subito dopo una pallottola in testa o un pugnale nel cuore, bruciare vivi donne, anziani e altri 1.200 civili inermi mentre piovono 5mila missili in 24 ore da ogni parte sulla popolazione israeliana. Certo, se l’avessero chiesto a Heidrich o a Streicher magari sarebbero stati d’accordo, e anche Chef Rubio la pensa così.

Oggi, tra animi contriti e applausi partecipati, grazie ai collaborazionisti de’ noantri ce l’abbiamo fatta a rompere l’argine. Personaggi del calibro di Celine o Rebatet, convinti che un ebreo sia un «parassita, il più odioso, il più disgustoso», oggi se la devono combattere con i Travaglio e i Ranucci, i quali, peraltro, non solo in spirito ma pure in tecnica mangiano la polvere di quei mostri (in molti sensi) di cultura e pensiero. E si vede.

In questa infinita tragedia di Gaza, pensi a 80 anni prima quando agli ebrei facevano le stesse cose (ma senza vantarsene come fanno i palestinesi), sapendo che c’era Mildred Gillars, conosciuta come «Axis Sally» (Sally dell’Asse), una speaker radiofonica statunitense che trasmetteva propaganda nazista dalla Germania verso le truppe alleate per demoralizzare i soldati e diffondere disinformazione, come oggi con gli «ospedali bombardati apposta» e i «bambini affamati di proposito»: fatta la tara, fu in pratica una specie di Rula Jebreal. Anche il Giappone ebbe una valente collaborazionista, versante Pacifico, come «Tokyo Rose», altra speaker implacabile, però a noi è toccata Laura Boldrini, per dire, un prodotto tipico con etichetta Onu.

Ora, il soccorso per tanto strazio lo fornisce il «rasoio di Hanlon», principio metodologico modellato sul celeberrimo escamotage di Occam, che dice: «Mai attribuire a cattiveria quel che si spiega benissimo con la stupidità».

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