Gli Accordi di Abramo assumono un peso ancora più decisivo
Invocare la cacciata di Hamas è inutile, senza recidere la matrice di fanatismo si rimuove il sintomo, non la causa
di HaKol - 7 Agosto 2025 alle 12:59
Si può disapprovare, per varie ragioni, la decisione annunciata da Netanyahu di occupare integralmente la Striscia di Gaza, soprattutto se alla disapprovazione si accompagnino alternative concrete. Non è irrilevante, però, che una simile decisione giunga dopo gli ultimi, terribili video degli ostaggi e l’intensificarsi di pressioni volte al riconoscimento di uno Stato palestinese: segnale di una volontà di ritorno a un modello superato e, per Israele, semplicemente inaccettabile.
Non sorprende che proprio ora, quando non dovrebbero più sussistere alibi per la vacua, automatica reiterazione di un paradigma abusato e logoro, questo torni a imporsi nel discorso pubblico, eludendo il nodo teorico alla radice del conflitto. Così, limitarsi a invocare l’allontanamento di Hamas quale condicio sine qua non rivela una disarmante incomprensione della storia e delle dinamiche del Medio Oriente: senza recidere la matrice di fanatismo e violenza da cui nasce, si potrà forse rimuovere il sintomo, non la causa. Hamas non è, infatti, che la più recente e brutale manifestazione di un’idea le cui origini risalgono agli albori dei Fratelli Musulmani, all’alleanza fondativa fra il Gran Muftì di Gerusalemme e il Terzo Reich. Si cita l’Autorità Palestinese (AP) come valido interlocutore e ineludibile guida del futuro Stato, quasi specchiato garante di stabilità. Pure, se è vero che, con colpevole ritardo, essa ha intimato ad Hamas di deporre le armi, dietro tale mossa è facile intravedere l’opportunismo politico di Fatah: tornare a Gaza, territorio lucrativo se mai ve ne fu uno.
Le cancellerie euroatlantiche sembrano trascurare che la parvenza rispettabile dell’AP non basta a occultare un substrato ideologico in larga parte condiviso con Hamas, e rafforzato anche grazie ai loro miliardi à fonds perdus: gli stessi che hanno finanziato tanto il riuscito programma di «pay-for-slay» dei primi quanto i tunnel del terrore dei secondi, scavati sotto il naso dell’ONU. Le arringhe del Muftì restano parte del curriculum scolastico, sia a Gaza che a Ramallah, e non sono poche le vie e le piazze intitolate ai «martiri», termine caro anche al «vicepresidente» Hussein Sheikh, plausibile successore di Abbas.
In Germania, l’esperienza nazista si esaurì in appena dodici anni. Ma la ricostruzione del Paese non fu affidata alla vecchia, compromessa élite, complice di tanta devastazione. Riassorbita parte dell’apparato per necessità operative, il potere politico e istituzionale fu mantenuto saldamente sotto controllo alleato. Come si può, oggi – il libro della storia aperto innanzi a sé, errori inclusi – accordare legittimità statuale a un popolo che da ottant’anni, non dodici, si nutre della medesima ideologia antisemita e suprematista, intrecciata ad aspetti dell’islamismo più radicale – un popolo la cui identità, in sostanza, si è plasmata in opposizione a Israele? Vittima e carnefice anzitutto di sé stessa, la popolazione palestinese ha ripetutamente scelto di farsi governare da variazioni più o meno efferate del medesimo culto di morte. Diversamente della Germania o dell’Iran, non ha mai sviluppato una resistenza di rilievo al proprio interno; al contrario, vige una permeabilità profonda fra milizie e civili, ormai difficilmente distinguibili. A Gaza, vent’anni di autonomia hanno condotto al 7 ottobre: ciò non può essere premiato con la sovranità nazionale.
La risoluzione del conflitto passa dunque dall’ammissione della corresponsabilità occidentale nel perpetuarlo e da un autentico, multigenerazionale processo di denazificazione, capace di coltivare virtuose micro-realtà locali attualmente senza sbocco. Tale processo andrebbe forse più opportunamente affidato a quelle nazioni arabe già protagoniste di una svolta moderata. Solo in seguito, fatti alla mano, avrà senso discutere di uno Stato palestinese. Gli Accordi di Abramo assumono, in quest’ottica, un peso ancora più decisivo. Nel corteggiamento di un’opinione ad esso ampiamente ostile, difficilmente sarà il diritto di Israele alla sicurezza a ispirare la comunità internazionale. Sono i bambini palestinesi, probabilmente, l’unica vera speranza. Anche per loro, che colpe non hanno, occorre guardare in faccia la realtà e cambiare rotta. Soprattutto per quelli di Gaza, usati come scudi umani, come materiale di scena per la propaganda: bambini che crescono nel dolore, fra un’evacuazione e l’altra, ai quali viene insegnato che il martirio rappresenta la sorte più nobile, nel migliore dei mondi possibili.