L'intervista
Gaza, il piano di Israele analizzato da Mattiolo: “Svolta positiva poi toccherà a Paesi arabi, sciiti e sunniti, a operare in modo costruttivo”
di HaKol - 9 Agosto 2025 alle 11:31
Luigi Mattiolo nella sua lunga carriera alla Farnesina è stato anche ambasciatore d’Italia in Israele e capo dell’Ufficio diplomatico di Palazzo Chigi durante il governo Draghi. Conosce da vicino le dinamiche del Medio Oriente e il delicato equilibrio tra diplomazia, sicurezza e politica interna.
Ambasciatore Mattiolo, il nuovo piano approvato dal gabinetto di sicurezza israeliano prevede il controllo di Gaza City. Qual è il significato politico e strategico di questa decisione?
«Penso che sia obiettivamente una svolta che può avere molti aspetti positivi. Per Israele, soprattutto per l’opinione pubblica israeliana, è una scelta lacerante: rioccupare Gaza significa affrontare costi enormi, perdite tra i soldati, inevitabili vittime palestinesi e danni internazionali. Ma smettere ora, senza condizioni, significherebbe rinunciare anche agli ostaggi: un dilemma impossibile. Mi sembra però che la linea del governo sia articolata positivamente. Da un lato, si afferma che, se necessario, Israele è pronto a rientrare nella Striscia per rimanerci. Dall’altro, non si tratta di un’azione già attuata: si lascia spazio all’evoluzione degli eventi. Il piano è fondato su cinque punti chiave, a partire dalla richiesta che Hamas deponga le armi».
È realistico pensare a una Gaza priva di minacce terroristiche? E quale ruolo possono avere i Paesi arabi in questo processo?
«Serviranno pressioni politiche forti, soprattutto dai Paesi arabi sunniti. Penso, ad esempio, al documento approvato recentemente dalla Lega Araba, sostenuto anche dal Qatar, sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese, promosso da Arabia Saudita e Francia. Quel testo parla chiaramente di rilascio degli ostaggi – uno dei cinque punti di Netanyahu – e di disarmo di Hamas. È un’evoluzione importante. L’idea è che Israele si assuma la responsabilità della sicurezza in una fase iniziale, ma che poi, con pressioni da Stati Uniti, Europa e mondo arabo, emerga un’autorità transitoria, temporanea, in grado di prendere il testimone e preparare un futuro diverso».
Ma il mondo arabo è tutt’altro che omogeneo. Non mancano le tensioni interne. È realistico pensare a una loro collaborazione?
«È vero. Le dinamiche interne sono complesse. Il Qatar è inviso agli Emirati, della Turchia diffida l’Egitto… E d’altronde va ricordato che la causa palestinese è stata spesso un pretesto per mascherare interessi divergenti. Paesi sciiti e sunniti si sono proclamati difensori dei palestinesi, ma con agende profondamente diverse. Le milizie terroristiche hanno sfruttato quella retorica, portando una strategia di morte che ha avuto conseguenze gravissime per la popolazione palestinese. Voglio sperare che oggi, nonostante le divergenze, prevalga un interesse comune a operare in modo costruttivo».
A proposito di diplomazia, si parla di attriti tra Netanyahu e Trump. Lei che idea si è fatto?
«Sarei cauto. È evidente che Trump vuole continuare a presentarsi come l’uomo che conclude le guerre, che porta la pace. Detto ciò, penso che anche Trump, come tutte le amministrazioni che lo hanno preceduto, abbia ben chiaro che un’umiliazione di Israele equivarrebbe a un’umiliazione dell’intero Occidente».
Qual è secondo lei il ruolo che l’Europa dovrebbe giocare in questa fase? E quali errori dovrebbe evitare?
«L’Europa ha una posizione storicamente divisa, lo si è visto anche nelle votazioni alle Nazioni Unite: c’è chi vota contro Israele, chi a favore, chi si astiene. Finché non si supera una lettura manichea del conflitto, in cui Israele è visto da alcuni come una potenza imperialista e occupante, sarà difficile che l’Europa possa svolgere un ruolo diplomatico incisivo. Ma se i Paesi arabi trovano un’intesa con Israele e Stati Uniti sul futuro di Gaza, allora molti in Europa dovranno rivedere le proprie posizioni e contribuire attivamente a una soluzione concreta e duratura».