Israele nel mirino

Padre ebreo aggredito in un parco: i pugni e la kippah calpestata. Ma oggi si dice “odio Israele”

di Luigi Giliberti - 19 Agosto 2025 alle 10:15

Giorni fa a Montréal un padre ebreo di 32 anni, con tre figli piccoli, mentre trascorreva il pomeriggio in un parco è stato aggredito: un uomo si è avvicinato, lo ha colpito più volte e ha calpestato la kippah. Nessuna provocazione, nessuna parola scambiata. Solo la certezza, per l’aggressore, di avere davanti il bersaglio giusto. La scena di Villeray non è un episodio isolato. È l’ennesima pagina di un copione antico: la violenza verso gli ebrei come sbocco naturale di un clima in cui slogan, comizi e post social hanno già fatto il lavoro sporco di disumanizzare il nemico.

L’antisemitismo è il pregiudizio più longevo della storia. Non muore: muta. Nel Medioevo l’ebreo era accusato di avvelenare i pozzi e diffondere la peste. Nell’età moderna diventava il banchiere usuraio responsabile di tutte le crisi. Nel Novecento era il “nemico interno” da epurare per la purezza della nazione, sia nei totalitarismi di destra che di sinistra. Oggi è il “colonizzatore” e “oppressore” per colpa dello Stato di Israele. Ogni epoca ha trovato un’etichetta nuova per lo stesso bersaglio.

Il passaggio è sempre uguale. Si inizia con l’isolamento: si identifica un popolo come diverso e collettivamente colpevole. Poi si passa alla normalizzazione: politica, religione e media ripetono il messaggio fino a renderlo ovvio. E infine c’è la legittimazione: la violenza diventa “giustizia” o “difesa” agli occhi della folla. Quando il linguaggio si sdogana, la strada lo esegue. Montréal non è un incidente: è il sintomo di un’infezione già diffusa.

Oggi l’odio indossa abiti nuovi. Non si dice più “odio gli ebrei”; si dice “odio Israele”. È più elegante, più presentabile. Ma poi i pugni, i graffiti e le minacce non colpiscono un primo ministro o un colono in Cisgiordania: colpiscono il negoziante kasher di Parigi, lo studente universitario a Londra, il padre con i figli a Montréal. Questo è il cuore del contagio antisemita in Occidente: usare la causa palestinese come scudo morale per riproporre un odio antico, con il vantaggio di sembrare “dalla parte giusta della storia”.

Perché solo loro? Perché l’antisemitismo è già nel “codice” della società. Basta un pretesto – una guerra, una crisi economica, un’ondata di propaganda – e riemerge. Nessun altro popolo subisce con questa regolarità il passaggio diretto dalla demonizzazione politica alla violenza fisica. La kippah calpestata in un parco canadese non è un gesto isolato: è il simbolo di come le parole, anche quelle dette “contro Israele”, finiscano sempre per colpire gli ebrei ovunque si trovino. Oggi il bersaglio era un padre con i suoi figli. La domanda è: chi sarà il prossimo, e quante altre parole tossiche lasceremo correre prima che tocchi a lui?

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