La fermezza ha prodotto risultati
Solo la pressione di Israele può piegare Hamas; senza fiato sul collo, l’organizzazione terroristica manterrà la presa su Gaza
di Iuri Maria Prado - 20 Agosto 2025 alle 12:25
Negli ormai quasi due anni della guerra di Gaza mai una volta – nemmeno una – le organizzazioni terroristiche che tengono in pugno la Striscia sono state indotte a mollare la presa in vista di qualche concessione. E rispettivamente: è stato sempre e soltanto per la pressione militare, e per la minaccia israeliana di aggravarla, che il potere sanguinario di Gaza ha mostrato cedimenti. È successo così dopo le prime settimane di guerra, con la liberazione di un discreto numero di ostaggi. È successo così dopo lo sblocco delle operazioni su Rafah. È successo così con la reazione israeliana dopo lo spettacolo degli ostaggi restituiti come scheletri o nelle bare, con quella folla che cantava vittoria restituendo i corpi di un lattante e del fratello di quattro anni strangolati. Ed è successo così ultimamente, con l’annuncio israeliano di un’entrata in forze a Gaza per eradicare le capacità offensive e le pretese di governo dei latifondisti del terrore.
Il corso dei 22 mesi di guerra è punteggiato di queste evidenze. Le organizzazioni terroristiche di Gaza hanno perso disastrosamente questa guerra, ma hanno gozzovigliato nel disastro e nel sangue dei civili che hanno sacrificato ai propri piani contando sul fatto che ad affogarvi sarebbe stato Israele. L’atteggiamento della comunità internazionale ha fiancheggiato quel disegno, come doveva ammettere il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, a pochi giorni dalla fine del suo incarico. La comunità internazionale aveva esercitato pressioni meno su Hamas che su Israele, ed era nei momenti in cui Israele era soverchiato da quelle pressioni che Hamas ristrutturava le proprie ambizioni. L’assassinio, un anno fa, di Hersh Goldberg e dei cinque rapiti come lui, ammazzati con un colpo alla testa dopo mesi e mesi di torture, era una delle tappe esemplari di quel percorso di legittimazione delle pratiche di Hamas tramite l’assedio internazionale nei confronti di Israele. Un assedio che non ha impedito la guerra di Gaza e, semmai, ha soltanto reso più difficile a Israele il compito di vincerla.
Ci sono voluti molti mesi per ottenere che l’esautoramento di Hamas cominciasse a rappresentare una condizione essenziale nei comunicati e nelle dichiarazioni che i capi di Stato e di governo occidentali andavano snocciolando in vista di una soluzione del conflitto. E per tutti quei mesi, il cui corso era governato da un’amministrazione statunitense che stilava bozze di accordo prive di quella condizione, la guerra continuava e i morti aumentavano mentre Hamas poteva con buona ragione confidare sulla persistenza del proprio accreditamento. Cioè sulla garanzia di un futuro per sé nel dopoguerra e nella ricostruzione di Gaza.
Con la restituzione di Kfir e Ariel Bibas in quelle due bare nere sarebbe stato simultaneamente chiaro – tranne che a quella folla in festa, e al mondo voltato dall’altra parte – che Gaza era ancora un pericolo per Israele e che il pericolo non risiedeva negli scontati intendimenti aggressivi di Hamas, ma nel fatto che potesse praticarli. La pressione che a tappe, a ondate di minacce e operazioni effettive, a volte anche malaccorte, Israele ha preso a intensificare da quel momento in poi non è altro che la messa in pratica di quel principio trascurato: l’eliminazione della minaccia costituita da Hamas. Un principio neppure soltanto trascurato, ma per troppo tempo avversato dai tanti che finalmente, ma solo a denti stretti, si sono arresi a sottoscriverlo. È negli allentamenti di quella pressione che la Gaza di Hamas ritrova forza. È nell’esercizio di quella pressione che Gaza può essere liberata da Hamas.