Ha Stato Israele
Egitto e Onu hanno incatenato i gazawi ma ora tutti straparlano di deportazioni
di Iuri Maria Prado - 22 Agosto 2025 alle 15:26
Il Corriere della Sera – ma è un’impostazione diffusa – scrive che la decisione israeliana di spostare una parte della popolazione civile palestinese nella nuova fase della guerra di Gaza costituirebbe “un’altra deportazione”. Al di là della scelta del termine – non propriamente neutra – c’è il succo di un pregiudizio di cui si fatica a comprendere l’utilità proprio considerando gli interessi dei “deportati”. Per quanto non piaccia a nessuno, e per quanto sia drammatica innanzitutto per la popolazione civile, quella di Gaza è una situazione di guerra. Hamas l’ha programmata e la combatte – dall’inizio, e rivendicandola – esponendo i civili al massacro. L’uccisione dei civili è un problema enorme per Israele, che per questo riceve condanna e sostanzialmente unanime esecrazione. Per Hamas è invece uno strumento di combattimento. Usare i civili “come attrezzi” non era un vuoto proclama di Yahya Sinwar: era, e continua a essere, una pratica di guerra del potere che governa la Striscia.
È legittimo discutere sul fatto che Israele dovesse accettare quelle condizioni di combattimento e, per eccesso, sarebbe legittimo anche sostenere che Israele avrebbe dovuto astenersi dal fare la guerra ad Hamas perché il prezzo pagato dai civili palestinesi sarebbe stato troppo alto. Ma è disonesto e contrario al vero negare che quella fosse – e continui a essere – la politica militare delle belve del 7 ottobre. Le “deportazioni” di cui si vaneggia – certamente non gradevoli, anzi spaventosamente afflittive – non si sarebbero rese necessarie se la comunità internazionale, adunata nelle inconcludenze e nelle complicità delle Nazioni Unite, non avesse rifiutato di realizzare e far realizzare, come Israele propose all’inizio del conflitto, delle zone di rifugio con presidio ospedaliero, linee di approvvigionamento e dispositivi di protezione.
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Salvo credere (anche di questo si è stati capaci, per esempio nei ricorsi sudafricani all’Aia) che Israele organizzi lo spostamento di quelle masse in aree separate da quelle di conflitto per farne altrettante zone di sterminio, chiunque dovrebbe comprendere che si tratta del tentativo – certo complicato, certo drammatico per chi vi è coinvolto – di minimizzare l’impatto sui civili delle operazioni militari. Le quali, per quanto siano descritte come l’insensato, sanguinario e immotivato ghiribizzo guerrafondaio di un governo senza freni, sono rivolte alla neutralizzazione delle capacità offensive delle formazioni terroristiche che ancora imperversano a Gaza e che ancora (è incredibile che si trascuri il “dettaglio”) attentano alla sicurezza di Israele.
L’uso di quel termine – “deportazione” – appare insensato non soltanto per ciò cui allude (un’arbitraria scelta oppressiva), ma soprattutto per ciò che accantona, e cioè che l’alternativa non si sa quale potrebbe essere. La “pace”, forse? E perché non il paradiso in terra? Ma un altro “dettaglio” condannerebbe al ridicolo – semmai si potesse sorridere su tanta tragedia – l’uso di quel termine. Ed è che discuteremmo d’altro, e saremmo in un’altra situazione, se lo Stato dirimpettaio – l’Egitto – non avesse ritenuto di impedire ai fratelli palestinesi di trovare rifugio oltre il confine.
[1] https://www.ilriformista.it/2-dx/