L'editoriale
Ciak, si odia! I mostri del Cinema di Venezia e l’appello contro Israele
di HaKol - 27 Agosto 2025 alle 07:30
Il palcoscenico di Venezia si apre con un appello contro Israele di trecento tra cineasti, registi, attori, tecnici del cinema. Un appello per impedire che film israeliani – e quindi attori, registi, sceneggiatori, tecnici israeliani – possano prendere parte alla Mostra del Cinema, quest’anno. Tra le firme ci sono anche nomi importanti, persone colte, serie, intelligenti. Attori di primario livello. Forse non ci si è resi conto di cosa ne viene fuori: un mostro incredibile. Il sonno della ragione risveglia i peggiori mostri.
I mostri del 1939
Voglio solo pensare, sperare che chi ha firmato non ha letto tutto, non ha capito bene. Perché in quell’appello si rimette in discussione il diritto di esistere dello Stato di Israele. L’integrità di Israele è un caposaldo, un principio di civiltà che segna lo spartiacque tra la barbarie del nazifascismo e la prosperità democratica del dopoguerra. Ed ecco quali mostri sta evocando la scivolosissima bolla di Venezia. Quelli del 1939. È come se la Repubblica socialista del cinema e il peggior antisemitismo avessero stretto un accordo diabolico, un nuovo patto Molotov-Ribbentrop. Artisti che magari a Tel Aviv scendono in piazza contro Netanyahu, a Venezia non sarebbero graditi non per quello che fanno, ma per quello che sono: per la loro identità ebraica. Questo discrimine è gravissimo. È così che riesplode l’antisemitismo nella sua essenza più tragicamente pura. È così che si rianima il nazismo: selezionare persone sulla base etnico-religiosa, prescindendo dalla loro individualità.
L’ombra si riaffaccia in Europa
Che senso ha, allora, impedire a un attore, a uno sceneggiatore, a un tecnico del suono che magari ha manifestato contro la guerra, di partecipare a un premio cinematografico solo perché israeliano? Se gli artisti possono stabilire che la libertà creativa deve piegarsi a una visione politico-ideologica, siamo allo ždanovismo. Ždanov, braccio destro di Stalin e capo della politica culturale sovietica, aveva stabilito questo principio: non puoi dipingere, scrivere, poetare, fare cinema se non al servizio dell’ideologia. Chiunque pensasse diversamente, soprattutto sul piano internazionale, veniva ridotto al silenzio e represso. Oggi quell’ombra si riaffaccia in Europa, ed è allucinante. Che siano proprio intellettuali sofisticati, autori stimati e colti, a non vedere l’enormità di questa contraddizione lascia senza fiato. La Mostra del Cinema, nella sua storia, ha accolto registi cinesi, iraniani e russi anche quando i rispettivi regimi si macchiavano di crimini atroci: da Tienanmen alle torture dei pasdaran fino al rapimento di decine di migliaia di bambini ucraini da parte di Mosca.
Il buio in sala
Eppure, contro Israele si alza un veto che colpisce la libertà e l’identità insieme. È un passo indietro che ricorda i momenti più bui del Novecento. Manifestare contro l’espressione libera dell’altro è la contraddizione più grande, per il cinema. Il cinema è libertà. E alcuni di questi registi hanno fatto dei film straordinari. A maggior ragione, questo appello è tristemente grottesco. Un segnale terribile del buio nel quale si sta precipitando. Spente le luci della ragione, rimane il buio in sala.