L'analisi

Due popoli due Stati: c’è ancora un domani. Cronistoria di un conflitto e di un sogno

di HaKol - 23 Settembre 2025 alle 14:59

Il conflitto israelo-palestinese è scoppiato a causa della sua stessa proposta di pace. La risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale dell’Onu del 1947 prevedeva la creazione di due Stati autonomi, uno ebraico e uno arabo, lasciando Gerusalemme nelle mani della comunità internazionale. Ed è a quella risoluzione bisogna risalire per capire cosa voglia dire “Due popoli, due Stati”. Concetto oggi inflazionato e, all’apparenza, irrealizzabile. Diciamo all’apparenza perché per noi fa sempre fede l’ostinato ottimismo di Ben Gurion: “Per essere realista, devi credere nei miracoli”.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, la geografia della Mezzaluna fertile è in continuo divenire. Le nazioni mandatarie, Francia e Regno Unito, stanno smantellando i propri imperi coloniali. Nell’area altre forze si fanno avanti. Israele verrà proclamato sei mesi dopo la risoluzione Onu. È il capolinea di secoli di sciagure e diaspore, culminati con l’Olocausto. È la realizzazione del progetto di Herzl, che ben prima dei campi di sterminio, annusa cattiva aria per gli ebrei d’Europa e progetta la realizzazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina.

C’è poi il mondo arabo. Londra e Parigi hanno promesso a emiri e sceicchi terre e ricchezze. Un patto coloniale a tutti gli effetti, assai lontano da un qualsiasi riconoscimento di autodeterminazione dei popoli. Ciò non toglie che, con la risoluzione del ’47, una terra agli arabi locali viene proposta. La missiva è rispedita al mittente, però, in quanto l’Onu assegna circa il 56% del territorio allo Stato ebraico, nonostante gli ebrei rappresentino un terzo della popolazione, e il 34% agli arabi palestinesi. Il 10% restante è Gerusalemme. Perché questo squilibrio? Sono le proiezioni demografiche dell’epoca a darci una risposta. La comunità ebraica è in forte crescita. Respinti da chiunque – Exodus insegna – i sopravvissuti all’Olocausto continuano a sbarcare nei porti di Tel Aviv e Haifa. Le città sulla costa e le terre coltivate sono in costante sviluppo. A questo si aggiungono gli investimenti del Fondo nazionale ebraico e dell’Agenzia Ebraica, che hanno agevolato l’acquisto di terre dai vecchi feudatari dell’Impero ottomano. Arabi di fede musulmana e cristiana. Al contrario, la curva della comunità araba è piatta. Le tribù locali sono nomadi. Sono una realtà demograficamente fluida, a cui è difficile attribuire la qualifica rigorosa di Stato-nazione.

Siamo quindi nel 1948. Per la precisione il 14 maggio. Il visionario Ben Gurion proclama la nascita di Israele e il giorno dopo il mondo arabo lo attacca. È il primo di una serie di conflitti che segneranno la seconda metà del Novecento. La crisi di Suez del 1956. Quella guerra dei sei giorni, avviata da Israele per anticipare l’attacco congiunto di Egitto, Siria e Giordania e che la porta controllare Sinai, Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Infine la guerra del Kippur, nel 1973, quando Egitto e Siria lanciano un attacco non intercettato dal servizio d’intelligence israeliano. Tzahal respinge l’offensiva e mantiene pressoché invariati i confini.

Qui si interseca la nascita dell’Olp, nel 1964. Realtà politico-terroristica, di matrice socialista, l’Organizzazione guidata da Yasser Arafat persegue la nascita di una Palestina “dal fiume al mare”. Espressione già nota nel 1848, coetanea della Naqba, la catastrofe dei palestinesi, ma che trova vigore solo negli anni Sessanta. Ovvero quando Arafat e compagni si rendono conto che fidarsi dei paesi arabi non è cosa. La causa va perseguita con il “fai da te” degli attentati terroristici e delle Intifada. La questione è lunga e ci tocca correre. Gli anni Novanta sono il momento d’oro del “Due popoli, due Stati”. Nel 1993, gli accordi di Oslo prevedono il riconoscimento di Israele, da parte dell’Olp, e di quest’ultimo come legittimo rappresentante del popolo palestinese, da parte israeliana. Lo zenith si raggiunge con la stretta di mano a Washington tra Rabin, Peres e Arafat. Due anni dopo, il primo viene ucciso da un cittadino israeliano contrario al progetto di pace e di stop alla violenza.

È così che si apre il Terzo millennio, tra incertezze e difficoltà a rispettare gli impegni, ma si aggiunge un elemento. Nella nebulosa di correnti e fazioni che compongono l’Autorità nazionale palestinese (Anp), si inserisce Hamas. Movimento fondamentalista islamico, nato nel 1987, come braccio operativo dei Fratelli Musulmani e il cui programma prevede la cancellazione di Israele. Senza compromesso alcuno. Gli accordi di Oslo prevedevano che l’Anp cominciasse a creare una base fertile per la democrazia e il pluralismo. Nel 2005, in coincidenza con il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, Hamas vince le elezioni e dà piena dimostrazione della sua interpretazione di democrazia. Elezioni truccate, persecuzione degli oppositori, sottomissione di Gaza alla sua volontà. Così è da vent’anni.

Il 7 ottobre è il rigurgito più sanguinoso di un movimento che persegue i suoi fini con gli strumenti del terrorismo, della soppressione e della propaganda falsata. Ed è evidente che “Due popoli, due Stati” sia un concetto lontano anni luce dalla leadership del movimento islamista. Il progetto di pace resta quindi nelle mani un’Anp, frustrata da decenni di corruzione, che ne hanno compromesso la credibilità. Le speranze quindi sono riposte nella sola democrazia dell’area. Il problema è che Israele non può permettersi di riaprire il file “Due popoli, due Stati” finché lungo i suoi confini ci sarà qualcuno che vive soltanto per annientarlo.

Il grande archivio di Israele

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