L'intervista
Israele, ONU teatro di annunci. Luigi Mattiolo: “La posizione italiana è saggia. Gli Accordi di Abramo? Sono un patrimonio prezioso”
di HaKol - 24 Settembre 2025 alle 14:46
Diplomatico di lungo corso, già ambasciatore d’Italia a Tel Aviv e a Berlino, poi consigliere diplomatico della Presidenza del Consiglio, Luigi Mattiolo è una delle voci più autorevoli sulla politica estera italiana ed europea. La sua lettura dei rapporti tra Israele, Palestina e comunità internazionale si muove tra esperienza, prudenza e chiarezza analitica. In questa conversazione affrontiamo con lui i nodi storici e politici che oggi alimentano il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina.
Ambasciatore, partiamo da un chiarimento di metodo. Il riconoscimento della Palestina è una decisione che si prende alle Nazioni Unite?
«No, non è una decisione dell’ONU. Il riconoscimento della Palestina, qualsiasi cosa questo voglia dire in concreto, è una prerogativa dei singoli Stati, non un atto collettivo imposto dall’ONU. È vero, però, che il progetto di creare lo Stato palestinese – come quello di costituire lo Stato di Israele nel 1948 – è nato proprio nel contesto delle Nazioni Unite. Per questa ragione, da decenni, il palcoscenico internazionale più usato per far avanzare la causa palestinese è l’Assemblea generale di New York, dove trovano ascolto e sostegno».
Perché proprio l’ONU è diventata la cassa di risonanza della questione palestinese?
«Per due motivi principali. Il primo è che lì, già alla fine degli anni Ottanta, Arafat dichiarò la nascita dello Stato palestinese e ottenne subito il riconoscimento di circa ottanta Paesi. Il secondo motivo è l’allargamento dell’ONU: dai cinquanta Stati fondatori siamo passati a oltre 190. La maggior parte delle nuove adesioni veniva da Paesi usciti dalla decolonizzazione, che leggevano il conflitto israelo-palestinese in chiave anticoloniale e antioccidentale. Per loro era naturale vedere Israele come l’incarnazione dell’imperialismo da combattere».
Oggi come ieri, le grandi assemblee ONU diventano teatro di annunci e di prese di posizione?
«Assolutamente sì. L’apertura della sessione annuale dell’Assemblea è il momento di massima audience, con tutti i leader mondiali presenti. È la settimana in cui perfino Fidel Castro e Arafat usavano il podio dell’ONU per parlare al mondo. Anche Netanyahu, pochi anni fa, mostrò all’Assemblea il famoso cartellone con la bomba disegnata per denunciare il programma nucleare iraniano».
Torniamo al 1948. Quando Israele proclamò la sua nascita, molti Paesi arabi non solo non lo riconobbero, ma attaccarono militarmente.
«È così. Ben Gurion lo disse chiaramente: era un momento storico, ma poteva essere l’inizio di una guerra. E così fu. Dal 1948 in poi, l’elemento mai accettato da gran parte del mondo arabo è stata l’idea che in Medio Oriente potesse svilupparsi uno Stato ebraico, con la sua identità e le sue tradizioni. Ancora oggi, nei libri scolastici palestinesi finanziati anche dall’UE, troviamo pagine che incitano all’odio verso l’ebreo in quanto tale: un antisemitismo esplicito».
In questo scenario, come leggere la corsa attuale al riconoscimento della Palestina da parte di vari Paesi occidentali?
«Ci sono senz’altro motivazioni di politica interna. In molti casi, politica interna e politica estera si intrecciano: vale per i Paesi occidentali come per quelli arabi, dove la via più facile per risvegliare la piazza è sempre stata agitare lo spauracchio del “nemico sionista”. Oggi assistiamo a un effetto domino: Canada, Australia, Portogallo, Spagna, Francia, Regno Unito… Il tutto alimentato da una campagna globale di demonizzazione di Israele, unita al dramma umanitario di Gaza. Così si produce una lettura unilaterale: Israele colpevole, Palestina vittima».
Non rischia però di essere un riconoscimento incondizionato che rafforza Hamas?
«Questo è il punto critico. Senza condizioni – rilascio degli ostaggi, disarmo di Hamas, cessate il fuoco, canali umanitari sicuri – il riconoscimento diventa un premio a Hamas, che può presentarsi come vincitore morale e politico, umiliando l’Autorità Palestinese e alimentando l’isolamento internazionale di Israele. Non a caso, in Israele cresce la percezione che l’ONU sia strutturalmente antisionista e spesso antisemita: basti pensare alle 173 risoluzioni contro Israele contro appena 9 adottate contro l’Iran».
Il nodo della sicurezza di Israele resta irrisolto. Quali garanzie sarebbero indispensabili?
«La sicurezza di Israele è la precondizione di qualsiasi processo di pace. Dopo il 7 ottobre, il più grave pogrom dalla Shoah, Israele non può accettare di vivere in uno stato di perenne belligeranza. Occorrono garanzie durevoli, strumenti di deterrenza e un percorso diplomatico che coinvolga anche i Paesi arabi moderati. In questo senso, gli Accordi di Abramo sono un patrimonio prezioso, perché mai rinnegati, neppure dopo gli eventi più drammatici».
Lei citava Trump e gli Accordi di Abramo. Che ruolo possono avere oggi?
«Gli Accordi di Abramo, conclusi sotto Trump con il silenzioso beneplacito saudita, hanno cambiato il quadro regionale. Nonostante le tensioni, non sono stati cancellati. E questo significa che rimane aperta la strada a una cooperazione tra Israele e una parte significativa del mondo arabo. È una base da cui ripartire, specie se gli Stati Uniti sapranno sostenere questo percorso».
E l’Italia? Come giudica la postura del nostro governo?
«L’Italia ha scelto la prudenza, ed è una scelta saggia. Da sempre il nostro Paese sostiene la popolazione palestinese sul piano umanitario: basti pensare ai tanti bambini curati negli ospedali italiani. Abbiamo relazioni consolidate con la Palestina, ma non ci siamo mai girati dall’altra parte. La linea di Meloni e Tajani è chiara: il riconoscimento ha senso solo se diventa leva per un processo virtuoso – liberazione degli ostaggi, disarmo di Hamas, governo provvisorio, forza di interposizione araba. Altrimenti rischia di irrigidire Israele e di rafforzare Hamas, primo carnefice del popolo palestinese».
E sulle possibili sanzioni europee a Israele?
«L’Unione Europea ha nella sua cassetta degli attrezzi soprattutto le sanzioni. Ma l’Italia ha sempre portato saggezza nei tavoli europei, ricordando che a volte le sanzioni fanno più male a chi le adotta che al destinatario. Nel caso di Israele, sarebbe un errore: non servirebbe a cambiare le cose, rischierebbe di peggiorare la situazione e irrigidire ulteriormente il governo israeliano. Su questo, la tradizione diplomatica italiana è chiara e coerente».