Le Ragioni di Israele
Francesca Albanese chiede di isolare il porto di Ravenna: è il metodo Hamas
di HaKol - 26 Settembre 2025 alle 09:55
C’è chi vuole trasformare l’Italia in un teatro di distruzione importata. Francesca Albanese chiede di delegittimare e isolare il porto di Ravenna. È il metodo Hamas: sgretolare un ecosistema produttivo per lasciare al suo posto distruzione, estremismo, guerra permanente. Il porto di Ravenna non è semplicemente “logistica”: è lavoro, competenza, filiere industriali e servizi che tengono in piedi comunità intere. Questa è la posta in gioco: il futuro di un Paese e la sua pace.
Ravenna è la seconda realtà industriale dell’Adriatico: banchine dove si caricano e scaricano materie prime per la chimica e la siderurgia, terminali che riforniscono l’agroalimentare, officine e cantieri che garantiscono manutenzione e occupazione specializzata. Non sono “simboli” da distruggere: sono reddito familiare, contratti tecnici, imprese dell’indotto che fatturano e danno lavoro ai giovani del territorio. Bloccare carichi o chiedere rotture di relazioni industriali è un colpo diretto alla capacità produttiva e al tessuto sociale. È una precisa volontà di distruzione e di radicalizzazione sulle macerie.
C’è poi un paradosso che chi invoca la “moralità” delle pur legittime proteste sembra non vedere: Ravenna partecipa a UNDERSEC, progetto europeo concepito per rafforzare la sicurezza subacquea delle nostre infrastrutture portuali – sensori, sorveglianza, interoperabilità per prevenire sabotaggi e traffici illeciti. UNDERSEC è tecnologia che tutela merci, lavoratori e cittadini. Chiedere l’allontanamento di partner o la cancellazione di progetti di cooperazione in nome di un boicottaggio ideologico significa indebolire la capacità del Paese di proteggere le proprie infrastrutture nel momento in cui ne avrebbe più bisogno. Una scelta semplicemente nemica della pace.
L’impatto occupazionale di questo attacco sciagurato è facilmente misurabile. Interrompere rotte, sospendere commesse o costringere aziende a rinunciare a collaborazioni internazionali espone a ricadute immediate: riduzione di orari, cancellazione di contratti a tempo determinato, ridimensionamento di piccole imprese che operano nell’indotto. Non è semplice allarmismo: ogni container bloccato ha una catena di fornitori dietro, ogni navetta sospesa produce effetti a catena che si traducono in conti aziendali meno ricchi e salari che scendono. Le famiglie che abitano vicino al porto non possono essere il terreno di prova di scelte geopolitiche ideologiche.
C’è infine il capitale sociale in gioco: alimentare rancore e fratture, impoverire e ridurre alla disperazione i lavoratori per trasformarli in avversari politici, scatenare proteste che degenerano in boicottaggi indiscriminati autodistruttivi è un’operazione cinica che mira a spostare il conflitto dalla dimensione internazionale a quella locale. Distruggere Ravenna per trasformarla in una Gaza, un fronte di guerra alimentato dalla rabbia autoprodotta da scelte scellerate.
La risposta a queste tensioni deve essere chiara e istituzionale. Difendere Ravenna significa tre cose concrete: garantire il lavoro e le tutele dei lavoratori portuali; salvaguardare gli investimenti e i progetti di sicurezza europei come UNDERSEC; aprire tavoli di confronto seri tra istituzioni locali, parti sociali e promotori delle proteste, per evitare che le istanze legittime si trasformino in danni reali e duraturi. Occorre, inoltre, monitorare e sanzionare – nei casi previsti dalla legge – ogni azione che travalichi la protesta legittima e si configuri come boicottaggio illegittimo o turbativa dell’attività economica. Ridurre in cenere le capacità produttive e il lavoro di un territorio non risolverà nessun problema lontano ma produrrà vittime locali. È un progetto di guerra che va respinto ora, con strumenti democratici, normativi e amministrativi: proteggendo i posti di lavoro, rafforzando la sicurezza e promuovendo processi di dialogo che mettano al centro le comunità.
Difendere il porto significa difendere l’Italia che lavora e la pace, che si costruisce quotidianamente lavorando per il nostro futuro. Il progetto devastante di Gaza, la riduzione a deserto produttivo che lascia al suo posto solo la lotta armata e la guerra, non devono passare. Francesca Albanese e il suo progetto vanno fermati adesso.