Come il 7 dicembre 1941

Il 7 ottobre come l’attacco a Pearl Harbor, la guerra che ha ridisegnato la geopolitica

di HaKol - 7 Ottobre 2025 alle 08:34

Il 7 ottobre 2023 sta alle attuali relazioni internazionali come il 7 dicembre 1941 sta alla Seconda guerra mondiale. C’è un lato tragico del pogrom del Nova Festival. Oggi, a due anni da quei fatti di sangue, lo ricordiamo come un avvenimento per nulla lontano e su cui ancora non si può scrivere la parola fine. E poi c’è tutto quello che ha scatenato. La risposta di Israele, la guerra ad Hamas a Gaza e l’intervento diplomatico degli Stati Uniti. Un insieme di avvenimenti che meritano un’interpretazione politica e militare e per la quale solo la storia può darci la chiave di lettura più valida. Per quanto sia ingiusto mettere Hamas sullo stesso piano dell’Impero giapponese, l’analogia tra il massacro di due anni fa con l’attacco a Pearl Harbor è funzionale per comprendere cosa sia successo in questi 24 mesi di guerra.

«Superata la sorpresa, Israele ha scatenato tutta la potenza costruita negli anni precedenti per contrastare l’Iran». Carlo Pelanda, economista e politologo (Università Guglielmo Marconi di Roma), specializzato in studi strategici, è noto per osservare i fatti da prospettive spesso originali. A suo giudizio, infatti, il pogrom è stato una mossa falsa di Hamas. Nonostante le perdite subite e i danni d’immagine per la sua Intelligence, lo Stato ebraico ha saputo trasformare quell’attacco nell’incipit di un conflitto che, a oggi, sembra avere le ore contate. O comunque si è prossimi a chiudere un capitolo definitivo di una storia che dura ormai da ottant’anni. «In un contesto dal forte valore simbolico, perché vicino allo Yom Kippur, lo Stato ebraico ha dato il via ad azioni che, in precedenza, erano state bloccate dalla prudenza e dalla concentrazione delle azioni militari in Cisgiordania». Hamas ha quindi svegliato il gigante, che, step by step, ha sconfitto i proxy iraniani. Hezbollah è stato messo a tappeto, gli Houthi sono stati emarginati nello Yemen e, per finire, gli stessi ayatollah hanno subìto lo smacco di una guerra lampo.

Alle novità regionali, ne sono seguite altre di ben più ampio respiro. L’atteggiamento di Turchia, Qatar e Russia è chiaramente diverso rispetto a due anni fa. Ankara ha accettato l’invito di Trump a convergere sul suo piano di pace, in cambio della fornitura di F35 e del sostegno Usa alla sua precaria situazione finanziaria. Doha ha dismesso il ruolo di Paese neutrale favorevole ai terroristi di Hamas per diventarne mediatore. «Cambiamento di cui possiamo fidarci solo in parte», ammonisce Pelanda, ricordando la fluidità degli accordi e delle alleanze che si creano in Medio Oriente. Meno sensazionalistica, ma proprio per questo di peso, è stata l’accettazione della Russia. «Putin non aveva scelta. Dopo il meeting in Alaska con Trump, le sue opzioni si sono ridotte. La stessa Cina, per proprio interesse, gli ha suggerito di non esagerare con la guerra in Ucraina».

Ma il vero elemento di discontinuità sta nell’impegno degli Stati Uniti in prima persona. «Prima questo non succedeva – ricorda Pelanda – Washington oggi si pone come il tutore di un compromesso. Chi non lo accetta ne pagherà il prezzo». Questo è un avvertimento rivolto a Israele, che ha dovuto accettare la partecipazione della Turchia; al Qatar, i cui interessi economico-finanziari sono a rischio; e infine ad Hamas, ovviamente. Non è chiaro se il gruppo terroristico avesse fatto questa valutazione. Una cosa è mettere in conto la reazione israeliana. Anzi, è plausibile pensare che i vertici di Hamas fossero sufficientemente consapevoli da prevedere che l’Idf avrebbe puntato al cuore di Gaza e cinici, sempre i terroristi, da sacrificarne la popolazione. Altro è immaginare che l’attacco del 7 ottobre avrebbe provocato una tale lacerazione nelle relazioni internazionali. «Quanto successo è semplice – spiega Pelanda – Si chiama normalità storica. Basta rileggersi i libri di geopolitica di fine Ottocento e troviamo lo stesso scenario. La pace è semplicemente un riconoscimento della deterrenza altrui. Fa parte della struttura logica delle nazioni, che devono arrendersi a quell’impero che, in una specifica fase della storia, ha il monopolio della forza».

D’altra parte, Sharm el-Sheikh non è Yalta. I negoziati sono in corso, e nemmeno quando i delegati saranno tornati alle proprie basi se ne potranno dare per scontate le conclusioni. Del resto, il capitolo 7 ottobre 2023 non è chiuso. Il dolore brucia ancora. Non fosse altro perché Hamas ha in mano circa 40 ostaggi, di cui 20 in vita. «Al di là di questo, però, resta la variabile indipendente della Cina», riflette l’analista. Pechino non si è espressa sul piano di Trump, «che rappresenta un ostacolo alla sua penetrazione in Africa e nello stesso Medio Oriente». Da qui Pelanda dà il 70% di riuscita al progetto di pace. «C’è la probabilità teorica, ma che non si può escludere, che Pechino spinga l’Iran al sabotaggio».

Il grande archivio di Israele

Abbonamenti de Il Riformista

In partnership esclusiva tra il Riformista e JNS

ABBONATI