La verità sull’antisemitismo

di Paolo Crucianelli - 31 Agosto 2025 alle 13:46

L’antisemitismo cresce. In Italia, in Europa, nel mondo. È un fatto, documentato da dati, cronache e testimonianze sempre più frequenti. Non passa giorno senza notizie di insulti, minacce, scritte, vandalismi, attacchi verbali o fisici a danno di ebrei o di simboli della cultura ebraica. Il tutto con un ritmo preoccupante e in costante accelerazione.

Gli atti più violenti, ed esplicitamente antisemiti, come quelli commessi da estremisti islamici o da frange dell’estrema destra e sinistra, sono facilmente riconoscibili. Più subdolo, ma non meno pericoloso, è l’antisemitismo travestito da “antisionismo”, che si sta diffondendo in ampi settori della società civile, della politica, della cultura e persino dello spettacolo.

Chi lo pratica rifiuta l’etichetta di antisemita. Si dichiara genericamente “contro Netanyahu”, “contro il governo israeliano”, “contro la guerra”, oppure rivendica la formula, ritenuta rassicurante, dell’“antisionismo”. Ma la verità è che, in molti casi, queste posizioni sfociano — intenzionalmente o no — in antisemitismo nudo e crudo.

Una domanda ricorrente è: “Allora non si può criticare Israele senza essere antisemiti?”.

Certo che si può. Ma la differenza sta nel come. Israele, come ogni altro Stato, è criticabile. Il punto è che non esiste nessun altro Paese al mondo che venga attaccato con una tale intensità retorica, con una tale sistematicità, con una tale leggerezza nel linguaggio. Parole come genocidio, pulizia etnica, crimini contro l’umanità, apartheid, annientamento sistematico, vengono ripetute senza riflessione, senza cautela, senza pudore. Come se il passato del popolo ebraico non avesse alcun peso nel modo in cui lo si racconta oggi.

A usare questi toni non sono solo militanti estremisti. Sono soprattutto politici, giornalisti, personaggi pubblici che si definiscono progressisti. E qui il paradosso si fa evidente: proprio una parte della sinistra, che si fregia di rappresentare i valori dell’inclusione, della tolleranza, della lotta contro ogni razzismo, diventa oggi la cassa di risonanza più ampia dell’odio antiebraico.

Si dichiarano anti-razzisti, ma delegittimano lo Stato degli ebrei. Usano lo schwa per non offendere nessuno, ma boicottano gli artisti, gli atleti, o gli scienziati israeliani. Difendono ogni minoranza, tranne quella che ha più ragioni storiche di temere per la propria sopravvivenza. La stessa sinistra che ha fatto propria la cultura woke, con il suo senso di colpa post-coloniale, sembra invece totalmente priva di un senso di colpa post-Shoah, che dovrebbe indurre alla massima cautela.

Negare al popolo ebraico il diritto di avere uno Stato (questo significa antisionismo) — per quanto criticabile nelle sue scelte politiche — è una forma implicita di antisemitismo. È questo il nocciolo: non si critica solo un governo, ma si mette in discussione l’intero progetto sionista, cioè l’idea che, dopo secoli di persecuzioni culminate nella Shoah, gli ebrei abbiano diritto a un rifugio nazionale. Perché, ricordiamolo, la Nazione-rifugio per gli ebrei non è solo un retaggio del passato post-bellico; è attuale, perché qualsiasi ebreo, in qualsiasi paese viva, qualsiasi nazionalità abbia, può, oggi, trovare rifugio in Israele, ottenendone la cittadinanza, in virtù della “legge del ritorno” (Aliyah).

E così, mentre si alzano le bandiere della resistenza palestinese, si tace sistematicamente su Hamas, sulle sue ideologie, sui suoi crimini. Come se non esistesse. Come se il 7 ottobre non fosse mai avvenuto. Come se fosse Israele, e solo Israele, l’origine di ogni male.

Il risultato? Un clima avvelenato, un’ostilità crescente verso chi è ebreo, verso chi sostiene Israele, verso chi osa dissentire dalla narrazione dominante. Si ritorna al passato, ma con un linguaggio nuovo. Non servono più le svastiche. Bastano i post, le dichiarazioni, i silenzi selettivi. E la caccia all’ebreo ricomincia.

Chi ha voce in capitolo — intellettuali, artisti, opinionisti, leader politici — ha anche una responsabilità. Le parole pesano. E se ripetute con leggerezza, finiscono per legittimare l’odio. L’antisemitismo di massa non nasce nei ghetti né nelle piazze violente: nasce nei salotti, nei festival, nei talk show. E si diffonde, travestito da attivismo, da giustizia, da morale. Ma resta ciò che è sempre stato: intolleranza.

Ma, attenzione, Questo senso di colpa post-Shoah, questa cautela nel parlare del popolo ebraico e del suo Stato, non dovrebbe essere prerogativa esclusiva delle figure pubbliche. È un processo che riguarda ciascuno di noi, individualmente. È una responsabilità collettiva, intima e civile, che nasce dalla consapevolezza storica di ciò che è stato, e che non deve più essere. Non serve essere leader politici, giornalisti o intellettuali per pesare le parole: basta essere persone con memoria.

Perché quando la storia insegna, il minimo che possiamo fare è ascoltare.

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