"Oggi il giornalismo si considera megafono del vittimismo"
Due anni dal 7 ottobre, l’appello di Fiamma Nirenstein: “Questa data diventi la nuova giornata della memoria. E’ stato un viaggio nell’abisso”
di HaKol - 7 Ottobre 2025 alle 15:54
Fiamma Nirenstein, giornalista e saggista italo-israeliana, è stata in Parlamento dove ha tra l’altro dato vita alla prima Commissione parlamentare d’inchiesta sull’antisemitismo. Trascorre la maggior parte del tempo a Gerusalemme. E da lì, all’alba, sotto schock, ha raggiunto il kibbutz di Be’eri per toccare l’orrore con mano.
Che cosa rappresenta per te il 7 ottobre?
«Io credo che il 7 ottobre debba essere dichiarato giorno della memoria, perché è il giorno in cui si è compiuto il peggiore attacco agli ebrei in quanto tali dalla Shoah in avanti. Lo dimostra la strage di bambini, lo stupro e la mutilazione delle donne, la deportazione dei vecchi: un attacco contro gli ebrei in quanto tali, proprio quelli che più credevano nella pace e nel dialogo, vivendo nei kibbutz al confine con Gaza. Quel giorno è stato infranto ogni diritto umano, ogni valore civile, come nei pogrom, nei roghi, nelle cacciate di secoli fa. È tutto lo stesso odio che ritorna».
Hai spesso detto che l’Europa non ha compreso fino in fondo la portata di quel giorno. In che senso?
«Sì, l’Italia e l’Europa non hanno capito. Non si rendono conto che quell’orrore è la ripetizione, con nuovi strumenti, dello stesso antisemitismo che attraversa i secoli. Ogni persona dotata di cervello e di cuore dovrebbe vederlo. E invece no: l’Europa reagisce con una freddezza che fa paura, come se tutto fosse solo un conflitto territoriale e non una persecuzione ideologica contro l’esistenza stessa degli ebrei».
Dove ti trovavi la mattina del 7 ottobre?
«Ero stata avvisata all’alba da Ruti Blum, una giornalista israeliana che mi ha telefonato alle 5.45. Mi chiedeva: “Sai che cos’è questo bombardamento?”. Poi i numeri delle vittime salivano di mezz’ora in mezz’ora: 25, 50, 300, 500 morti. Non ci credevamo. Quando poi sono andata giù nei kibbutz, ho visto con i miei occhi la distruzione, ho incontrato i sopravvissuti, ho ascoltato storie di orrore e di coraggio sconfinato. Ho visto le stanze dei bambini stuprati e uccisi. È stato un viaggio nell’abisso».
Hai detto che da quel giorno “è cambiato tutto”. Cosa intendi esattamente?
«Non è stato il 7 ottobre a cambiare tutto, ma la consapevolezza che si è aperta dopo. Per decenni abbiamo creduto che le divisioni potessero essere superate, che si trattasse di dispute territoriali. Ma non è così: è un rifiuto religioso e ideologico. Il neonazismo jihadista non accetta la convivenza, né con gli ebrei né con i cristiani. È un odio contro l’Occidente, contro le donne libere, gli omosessuali, i bambini che studiano, le famiglie che scelgono. E oggi tutto questo viene perfino travestito da difesa dei diritti umani».
Hai parlato anche di una “torsione conoscitiva” dell’informazione. Cosa intendi?
«Oggi il giornalismo si considera megafono del vittimismo. Conta solo chi riesce a proclamarsi più vittima, non la verità dei fatti. Non c’è più verifica, non ci sono più fonti: solo un racconto ideologico. E questo si intreccia con l’ignoranza storica. Quando vedo sfilare i “queers for Palestine”, mi chiedo se sanno che a Gaza verrebbero ammazzati uno a uno. È una cecità culturale, un analfabetismo morale travestito da idealismo».
Come vedi oggi Israele e il popolo ebraico dopo un trauma così profondo?
«Sento troppa lamentazione, anche tra gli ebrei. Non siamo più nel tempo in cui si poteva solo piangere o fuggire. Oggi gli ebrei hanno uno Stato forte, che difende l’Occidente, che vince contro Iran, Hezbollah, Hamas. Devono esserne orgogliosi. Israele regge la bandiera della libertà, e lo fa con una forza straordinaria. Ogni famiglia ha un lutto, ogni famiglia un dolore, ma quanta dignità, quanta resistenza, quanta luce! Penso a quel giorno in cui, nel nido del kibbutz di Be’eri, ho raccolto da terra un foglio con un cuore di plastilina e il nome di un bambino. L’ho portato con me, era intriso di sangue e pioggia. Credo che quel bambino sia vivo. E finché sarà vivo lui, sarà viva anche la speranza d’Israele».