Esteri
Il lungo viaggio da Tel Aviv al sito del Nova Festival: così Israele è sempre più unito
di Redazione - 7 Ottobre 2025 alle 17:19
Re’Im – Tel Aviv. A due anni dal 7 ottobre, Israele è ancora con il fiato sospeso, nell’attesa di sapere se e quando gli ultimi ostaggi ancora in vita saranno finalmente rilasciati. Dal mattino dell’attacco si è messa in moto una macchina del fango che, nei fatti o soltanto a parole, ha voluto isolare il Paese dal mondo. Eppure, c’è una radicale differenza fra parlare di Israele e viverlo. Esserci significa coglierne una trama altrove assente. È difficile spiegarne le contraddizioni e la bellezza insita nel miracolo della sua esistenza, quell’amore per la vita che è l’esatto opposto della narrazione unica e avversa cui si è abituati. Verrebbe da dire che Israele ha tutto quello che l’Occidente sta repentinamente perdendo, e forse è proprio questo, in fondo, l’imperdonabile.
Fra gli obiettivi dell’invasione vi fu quello di lacerare la società israeliana dall’interno, annichilirne il collante. Gli strappi, certo, esistono; ma il tentativo di far implodere il tessuto nazionale non è riuscito. Le divergenze politiche si sono acuite, soprattutto in merito alla gestione della guerra, e certa politica, si sa, avvelena il discorso ovunque porti la persona a identificarvisi con essa. Gli estremismi polarizzanti, tuttavia, si affrontano qui come in qualsiasi democrazia sana, aiutata, verrebbe da dire, da una cultura del dibattito inseparabile dal resiliente spirito ebraico. Continua a battere un sentimento collettivo e forte, incarnato nella bandiera bianco-azzurra che sventola dovunque: la consapevolezza del valore di questo Stato insieme minuto e immenso.
C’è un’unità nel dissenso, palpabile nei nastri gialli, negli striscioni per gli ostaggi, nelle bandiere che ondeggiano su piazze, balconi e nei lungomari. C’è unità a Tel Aviv, nella pluralità di opinioni che si incontra – e talvolta cozza – ad Hostage Square, luogo simbolico che ricorda una regola fondamentale: Israele non lascia nessuno indietro. È questo il nodo della tragedia cui si assiste da quasi due anni, ed è su questo imperativo che Hamas ha fondato la sua tortura.
Chi non conosce Israele fatica, inoltre, a concepire la relatività delle distanze. La prossimità di tutto rende immediate le esperienze del pericolo e della memoria. Il tragitto da Tel Aviv al sito del Nova Festival si compie, nell’ora di punta, in appena un’ora e mezza. Lungo la strada, le fotografie dei morti e dei rapiti, i nastri gialli si infittiscono. A un certo punto, le colline un tempo brulle, ora coltivazioni di agrumi, ulivi e avocado, digradano verso Gaza, che improvvisa si apre alla vista, un tremendo, bianco ammasso di macerie. Un palazzo salta in aria, lo vedi a occhio nudo. Si prosegue lungo la strada per Re’im, punteggiata di memoriali dedicati ai giovani assassinati mentre cercavano riparo.
Il sito del Nova è una grande radura fra boschi di eucalipti, nel deserto del Negev. Da qui Gaza non si vede, ma è dietro la collina. Centinaia di pali conficcati nella sabbia grigia e nera ricordano i morti e i rapiti di quel giorno. I loro volti ti guardano da fotografie che li ritraggono felici, scattate un giorno qualunque. Quei sorrisi chiedono un perché. Perché quell’alba infame, perché l’ancor più infame tradimento di un Occidente che, il giorno stesso, voltò loro le spalle.
A intervalli regolari, vicinissime esplosioni e colpi di mortaio, il sibilo di un razzo, soli suoni nel silenzio insieme al rombo dei mezzi pesanti. Alcuni familiari sono intenti a riordinare, a pulire; altri innaffiano alberelli piantati in memoriam. Ci sono gruppi di amici che indicano una foto – «ecco, era lei» – e si stringono in un abbraccio. Due ragazze sopravvissute sono tornate a rendere omaggio. In equilibrio instabile, il muro della resistenza interiore crolla, e quell’alba torna ad essere ieri.
Soprattutto, fra queste fotografie e questi alberi, ci sono i soldati dell’Idf. Ragazzi e ragazze di appena vent’anni, come molti di quegli uccisi. Prima di tornare in missione, o in attesa di assegnazione, fanno tappa qui. Qualcuno prega. C’è in loro una dignità che fa sentire così piccoli – quel senso di poter morire domani, di servire qualcosa di più importante del proprio ego. Vorrei chiedere loro se hanno qualcosa da dire ai loro coetanei, o a quei politici, a quei media che, da New York a Roma, non gli dimostrano che disprezzo, raffigurandoli, per somma perversione, arma di un «genocidio» in atto. Ma d’improvviso tutto questo pare irrilevante, e capisco per la prima volta quel poco impegno, tanto criticato da chi sostiene Israele, nella guerra mediatica. Forse la vita è semplicemente troppo breve, troppo preziosa, per preoccuparsi di un mondo impazzito.
Tornando verso nord, il fumo continua ad alzarsi dalle macerie di Gaza. Resta una domanda, che nessuna retorica, nessun contrasto riesce a sciogliere: come è possibile alimentare in sé così tanto odio da militarizzare completamente quella che davvero non è che una sottile striscia, essere pronti a farsi distruggere senza mai fermarsi, senza mai cessare di addentrarsi nei tunnel dell’orrore?