Il secondo panel
Gli equilibri, la pace, Israele che vince, al Riformista le firme parlano di futuro
di HaKol - 8 Ottobre 2025 alle 08:53
Sono le 16,40 del 7 ottobre. A Roma la politica sonnecchia. Due anni fa, le stragi di Hamas e Jihad islamica. Oggi, la consegna del silenzio. Dei 250 ostaggi, 48 dei quali ancora mancanti all’appello, le istituzioni italiane non parlano. «Non si ripeta che ne parlate!», aveva tuonato Francesca Albanese al sindaco di Reggio Emilia. Una fatwa che i più hanno eseguito, ieri, con la coscienza sporca e la coda tra le gambe. Anche se qualche segnale, pur piccolo, arriva. Il Quirinale inarca un sopracciglio sull’antisemitismo, dopo che Papa Leone XIV domenica, meglio tardi che mai, aveva fatto lo stesso richiamo.
L’idem sentire però ha imposto il silenzio di tomba su questa giornata. Non si deve parlare degli ostaggi, di Israele, delle ragioni che l’hanno portato in guerra contro il terrorismo. Setteottobre pubblica una pagina a pagamento su dieci quotidiani, un appello all’obiettività della stampa su Israele, oggetto di troppa cattiva informazione. Anziché far proprio il principio, pacifico quando non scontato, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana – mai citata da Setteottobre – lancia una nota di piccata protesta, come sentendosi punta nel vivo. Se ne parla, increduli, nel panel che Il Riformista ha riunito a conclusione della sua giornata di ricordo del 7 ottobre. «Non ci credo che Fnsi ha risposto così!», il grido proveniente, forse a sua insaputa, dal microfono di Mario Sechi, collegato dalla redazione di Libero. La platea, oltre centocinquanta persone, ride per non piangere. I tempi che viviamo sono, direbbe qualcuno, molto interessanti.
Sul piano di pace e le prospettive per il Medio Oriente hanno incentrato un confronto di inusuale densità – in tempi di slogan facili e grida sperticate – Fiamma Nirenstein, Maurizio Molinari, Nicola Porro, Mario Sechi, insieme con il presidente di Setteottobre. A coordinarli, il direttore del Riformista, Claudio Velardi. Che lancia la palla in campo israeliano e fa parlare Nirenstein, chiedendole il punto di vista di un’italiana che vive a Gerusalemme. Nirenstein è stata tra le prime giornaliste ad arrivare nel kibbutz di Be’eri appena si è diffusa la notizia di quello che si sarebbe rivelato il più disumano crimine antiebraico degli ultimi ottant’anni. «L’ennesimo tentativo di distruggere lo Stato ebraico non riuscirà, statene certi», dice. Ed enumera, in effetti, le partite vinte: Hezbollah in ginocchio, Assad in fuga, Teheran chirurgicamente colpita, il Qatar condotto a più miti consigli. E dulcis in fundo, «Hamas è stata sconfitta sul piano militare prima e politico poi: se oggi corrono a parlare di pace è perché Israele li ha colpiti a fondo».
Concorda Mario Sechi, che rincara la dose: «Aggiungo che se Gerusalemme non avesse vinto tutte le battaglie, gli Stati Uniti ci avrebbero pensato molto di più prima di entrare in scena in Iran». Due, secondo il direttore di Libero, sono gli assi strategici lungo i quali si dipanano gli interessi della geopolitica mediorientale: le fonti energetiche, chi le ha e le può muovere, e le rotte e infrastrutture energetiche. 18 trilioni di euro in gioco: e su chi saprà gestire meglio risorse e reti dell’energia, mostrando una superiorità tecnologica, si aprirà il nuovo mondo». Maurizio Molinari lo segue da una prospettiva al tempo stesso storica e politica: «Chi difende le ragioni di Israele non ha affatto perso, la partita è aperta. E poi sul futuro di Gaza, sulle sue prospettive post-belliche e sui corridoi di sviluppo avremo ancora molto da vedere». Parla di una rotta in particolare: «La guerra cognitiva di cui abbiamo parlato è mossa dalla Cina e dalla Russia, non per caso. Perché contro quest’asse ce n’è un altro che punta a tracciare una rotta strategica di risorse e che ci riguarda tutti da vicino: Indonesia-India-Penisola Arabica-Italia-Stati Uniti, un corridoio di sviluppo che può ridisegnare la mappa del mondo».
La guerra a Israele non è solo politico-ideologica, ma economica: gli antisemiti inconsapevoli che si agitano in Europa e in Italia in particolare non sanno di essere burattini nelle mani dei bot russi e cinesi. Nicola Porro passa dai grandi schemi ai temi quotidiani della resistenza ebraica. «Ci si sente tutti ebrei, perché a un certo punto chi difende Israele si ritrova isolato, guardato male anche dagli amici e colleghi». Parla al cuore della platea: «Hanno lavato il nostro cervello e ora ci fanno credere quello che gli pare. Un momento terribile, perché mentre Israele vince militarmente le sue battaglie in Medio Oriente, Hamas sembra vincere in Italia, si è impossessata della testa delle persone». È la guerra cognitiva, che si combatte testa dopo testa.
Ne parla, concludendo l’incontro, Stefano Parisi: «Fintanto che Hamas tiene gli ostaggi nei suoi tunnel, sarà sempre 7 ottobre. E finché perfino l’Anp insegna ai bambini a odiare Israele, a uccidere gli ebrei, non verremo mai fuori da questa spirale. Servono passaggi generazionali, sforzi culturali, più dialoghi che riescano a scardinare questa catena di disinformazione e antisemitismo, miscela velenosa del nostro tempo». Grandi applausi, foto di gruppo. Poi si deve uscire dalla sala: togliere la kippah, provare a nascondersi. Come nuovi dissidenti.