Le Ragioni di Israele

Accadde Oggi, 9 ottobre 1982: il piccolo Stefano muore nell’attentato alla sinagoga di Roma. Perché l’antisemitismo riguarda tutti

di HaKol - 9 Ottobre 2025 alle 06:45

Sono trascorsi quarantatré anni dall’attentato davanti al Tempio Maggiore di Roma, quando un commando di terroristi palestinesi uccise un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché. Non era solamente un ebreo: era un bambino italiano, un nostro bambino, come ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento del 2015. Quelle parole segnarono un passaggio storico: il riconoscimento solenne, da parte dello Stato, che quella ferita non apparteneva soltanto alla Comunità ebraica, ma all’Italia intera. Ciascun ebreo romano conserva memoria di quel momento. Ricordo perfettamente la commozione nel sentire finalmente la voce più alta delle istituzioni pronunciare con limpidezza ciò che troppo spesso era stato taciuto: Stefano, mio fratello ebreo, era figlio dell’Italia. Ed anche io lo ero e lo sono.

C’è un altro discorso, di gran lunga più cupo, inciso nella nostra coscienza collettiva: quello di Bruno Zevi, allora consigliere comunale, che in Campidoglio, all’indomani dell’attacco del 9 ottobre 1982, levò un atto d’accusa durissimo contro politica, media e società civile. Zevi ammonì che l’antisemitismo è “il sismografo della civiltà di un Paese”. Con lucidità profetica aveva colto che non si trattava di un episodio isolato, ma del sintomo di una malattia profonda. Era, però, già troppo tardi. Da quel momento l’Italia non ha conosciuto nuove tragedie simili, ma il resto d’Europa sì. Il sismografo, dunque, continua a registrare scosse. Le vediamo nelle piazze del mondo percorse da slogan antiebraici, nei social network dove vecchi pregiudizi vengono amplificati con linguaggi nuovi, nelle ambiguità di chi pretende di distinguere l’antisionismo dall’odio antisemita, quando in realtà il confine è labile e pericoloso. Serve chiarezza morale, perché l’antisemitismo non è una questione degli ebrei: è una questione di tutti, un indice della qualità della sua democrazia.

Ogni volta che si tollera l’odio, ogni volta che si minimizza un insulto o uno striscione, ogni volta che si volge lo sguardo altrove, è la Repubblica stessa che si impoverisce. Ed è proprio qui che nasce l’urgenza. Perché, se è vero che lo Stato protegge le comunità ebraiche, se le istituzioni locali non hanno mai fatto mancare la loro solidarietà e vicinanza, è lecito chiedersi: questo è sufficiente? Non basta erigere barriere di sicurezza se non si costruiscono argini morali. Oggi possiamo e dobbiamo chiedere più sobrietà nel linguaggio pubblico, attenzione nelle parole, consapevolezza delle conseguenze. Perché le esagerazioni diventano armi e gli ebrei vengono uccisi quando ci si autoconvince della loro colpevolezza: l’attentato di Manchester durante lo Yom Kippur lo ribadisce ancora una volta.

Il 9 ottobre 1982, il cui anniversario cadrà durante la festa ebraica di Sukkot, non è soltanto una data da ricordare: è una ferita che non smette di sanguinare, un monito che ci avverte di quanto fragile sia il confine tra la parola e la violenza, tra il pregiudizio e l’omicidio. Per questo il dovere che ci spetta non è soltanto commemorare, ma vigilare, sulle parole e sulle omissioni. Perché la memoria di Stefano Gaj Taché chiede quella responsabilità, che in una democrazia appartiene a tutti. E chiede anche coraggio alla politica, a cui si chiede di non lasciare soli gli ebrei, nemmeno oggi che appaiono capaci di far sentire la propria voce. La forza di una comunità non ne cancella la vulnerabilità, né la responsabilità che grava su ogni cittadino. La memoria di Stefano e di tutti i caduti dell’odio ci obbliga a un impegno comune, perché vigilare contro l’antisemitismo significa vigilare sulla qualità della democrazia.

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