Un enorme sacrificio che a nessun altro Paese sarebbe chiesto di pagare

I terroristi palestinesi sono liberi e appena possibile torneranno ad attaccare i civili: solo Israele paga il caro prezzo

di Iuri Maria Prado - 14 Ottobre 2025 alle 12:52

Quando fu scarcerato, ormai una quindicina d’anni fa, Yahya Sinwar [1] era alleggerito del peso del tumore che i medici israeliani gli avevano cavato dalla testa. La sua liberazione era una delle tante offerte a riscatto di un solo israeliano rapito. Sinwar fece tesoro della guarigione e della libertà per dedicarsi ulteriormente al proprio lavoro di macellaio, che culminò nell’ideazione, organizzazione e attuazione dei massacri del 7 ottobre.

Tra i “prigionieri” che lo Stato ebraico si è ora costretto a liberare per avere indietro questa ventina di ostaggi superstiti, cioè gli inermi rapiti due anni fa dai miliziani e dai civili di Gaza che invasero Israele, figura un buon numero di gente simile. Sodali o discepoli di quel capo di Hamas, il “combattente” ritratto un anno fa con una pallottola in corpo e con la bocca aperta tra le macerie della città che aveva trasformato in un rifugio per sé e in un inferno per i civili palestinesi da usare “come attrezzi”.

Anche questa volta lo “scambio di prigionieri”, come in tanti hanno la sfrontatezza di definire questo sacrificio per il riscatto di vite israeliane, costituisce il prezzo smodato che a nessun altro Paese sarebbe richiesto di pagare, e che nessun altro Paese pagherebbe: un prezzo che Israele paga in termini di sicurezza, la propria e dei propri cittadini, perché giudica che la vita degli ostaggi ora valga il pericolo di altri rapimenti e altre uccisioni domani. Non si tratta, peraltro, di un giudizio condiviso in modo unanime. Alcuni, non pochi, ritenevano e ritengono che proprio affinché Israele non dovesse essere costretto a simili scelte fosse necessario risolvere altrimenti la questione.

Tanto per capirsi: se i cosiddetti “prigionieri” non ci sono più, non si fa questione di liberarli. È una discussione drammatica, ovviamente, ma non nasce da propensioni vendicative. L’80% dei palestinesi detenuti per implicazioni con Hamas torna nei ranghi dell’organizzazione; oltre il 20% torna direttamente e attivamente in attività terroristica. È sulla base di queste risultanze numeriche e di fatto che in Israele si è discusso sulla sorte dei detenuti con questo profilo. E non è una discussione chiusa.

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Di fatto, moltissimi tra quelli liberati adesso erano appunto responsabili di delitti gravissimi. C’è quello che ha accoltellato una madre di 38 anni davanti alla figlia adolescente. Ci sono quelli che hanno mandato gli uomini-bomba a farsi esplodere e a fare strage a Gerusalemme, in Giudea e Samaria, a Tel Aviv, con decine e decine tra morti e feriti. C’è quello che ha partecipato al linciaggio di due ragazzi in una stazione di polizia di Ramallah. Ci sono i pianificatori e gli esecutori di innumerevoli attentati con ogni mezzo – coltelli, fucili, bombe molotov – contro i civili israeliani: donne, vecchi, bambini presi di mira nelle case, nelle scuole, nelle sinagoghe, nei ristoranti, nei bar israeliani.

Non è semplicemente possibile che, una volta liberati, tornino ad attaccare i civili israeliani: è una certezza. Se potranno, uccideranno ancora. Se saranno neutralizzati, chi ora parla di “scambio di prigionieri” denuncerà l’ennesima violenza israeliana. Se non saranno neutralizzati, e riusciranno a portare a termine un’aggressione, la recidiva terrorista cui si abbandoneranno finirà nelle divagazioni contestualizzanti che rimandano un’altra volta alla colpa di Israele – “forza occupante” – quella reazione magari non commendevole ma dopotutto comprensibile.

[1] https://www.ilriformista.it/come-e-stato-ucciso-sinwar-i-tunnel-rafah-e-la-fuga-verso-legitto-sul-corpo-otto-tra-granate-e-mine-442220/

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