L'intervista
La missione di Road to Recovery, Ong israeliana: “Così salviamo i bambini di Gaza”
di HaKol - 30 Ottobre 2025 alle 13:45
Mentre il Medio Oriente cerca un equilibrio dopo mesi di guerra, c’è chi continua a costruire ponti umanitari. È la missione di Road to Recovery, Ong israeliana che per anni ha dato assistenza ai gazawi – soprattutto bambini – dai posti di blocco verso gli ospedali dello Stato ebraico. Per la CEO Yael Noy, anche se la pace sembra lontana, lo spirito è lo stesso: non fermarsi, perché ogni vita salvata è un passo verso la riconciliazione.
Road to Recovery non ha mai smesso di costruire ponti, nemmeno nel pieno della guerra. Ora c’è una prospettiva di pace. Lei è ottimista?
«Avere un cessate il fuoco non significa che siamo in pace ora. Non so se sono ottimista, ma continuiamo a fare quello che stiamo facendo perché è la nostra missione, la stiamo portando avanti. Non vedo una rapida fine di questa guerra. Israele ha smesso di bombardare Gaza, ma non è ancora una pace vera e propria. Ora non possiamo aiutare i nostri pazienti a Gaza, hanno bisogno di tantissimo aiuto. Andiamo avanti e non ci fermeremo».
Dal punto di vista operativo, come state riorganizzando la logistica e le attività sanitarie se l’accordo di tregua dovesse reggere?
«La nostra logistica è la stessa. Stiamo facendo un sacco di cose, abbiamo persone che lavorano in Cisgiordania, abbiamo il nostro coordinatore in Cisgiordania, e i nostri coordinatori qui in Israele, e stiamo lavorando insieme. Non importa cosa stia succedendo. Noi continuiamo a lavorare insieme e a fare ciò che dobbiamo fare».
L’Italia sta sviluppando un piano umanitario senza precedenti, inclusa l’assistenza per i bambini con disabilità. La vostra Ong come può collaborare con il nostro Paese?
«Beh, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Poche sere fa ho parlato con una mia collega che sta cercando di aiutare le persone di Gaza: abbiamo due pazienti che non sono nella Striscia, ora sono in Egitto. Sono due bambini molto malati, non ricevono alcun sostegno lì: stiamo cercando qualcuno che li aiuti in Europa. Se un Paese potesse prenderli e curarli – in Italia oppure ovunque – saremmo felici. Quindi, se l’Italia ha un’organizzazione in grado di aiutare i bambini malati che hanno bisogno di aiuto, possiamo lavorare insieme».
Anche alcuni vostri volontari sono stati rapiti e tenuti in ostaggio da Hamas…
«Due. Sette dei nostri volontari sono stati assassinati quel giorno. Due di loro sono stati rapiti e poi sono stati assassinati nei tunnel di Hamas. Erano Oded Lifshitz e Chaim Peri. Ora sono tornati, ma sono tornati come corpi».
Hamas sapeva che stavano aiutando i bambini di Gaza?
«No, non credo. Penso che gli uomini di Hamas che sono entrati in Israele volessero solo uccidere chiunque. Non controllavano chi stavano uccidendo. Io vivo in un kibbutz proprio vicino al confine, e nel mio kibbutz sono stati assassinati 22 lavoratori dal Nepal e dalla Thailandia. Nessuno ha chiesto: “Chi siete?”. Li hanno assassinati solo perché erano lì. E anche musulmani, beduini sono stati assassinati quel giorno. Hamas non ha scelto e non ha chiesto: ha assassinato chiunque».
Durante questi anni di guerra, ha assistito in prima persona ai crudeli ricatti e alle atrocità commesse da Hamas contro i gazawi?
«Non sono mai stata a Gaza nel corso di questa guerra, quindi non ho potuto vedere nulla. Ma comunque anche le persone con cui sono in contatto a Gaza non ne parlano mai. Hanno paura di Hamas. Se dovessero parlare, sarebbe pericoloso per loro. Hamas è contro il proprio popolo tanto quanto è contro noi israeliani».
Il 7 ottobre rimane una ferita aperta: che impatto ha avuto sul lavoro di Road to Recovery?
«Noi ora non possiamo aiutare le persone di Gaza, e questo è un cambiamento molto grande perché in passato abbiamo aiutato decine e decine di gazawi. Inoltre tutti gli israeliani sono psicologicamente provati. Conoscevamo molte persone che sono state assassinate. I nostri figli, i nostri parenti erano in guerra e sono tornati, ma non sono gli stessi di prima. Stiamo lottando come persone ferite, ma continuiamo a fare il nostro lavoro. Alcuni dei nostri volontari si erano fermati all’inizio della guerra: era molto più difficile, perché molti dei nostri volontari non potevano guidare, non potevano aiutarci. Ma adesso abbiamo molte nuove persone che vogliono intervenire perché sentono che è un momento cruciale. È molto importante mantenere accesa la luce».