La risoluzione
Nazioni Unite: lo Stato ebraico resta a Gaza “finché sarà minacciata dal terrorismo”
di Iuri Maria Prado - 19 Novembre 2025 alle 12:28
La risoluzione su Gaza adottata l’altra sera dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta per molti una catastrofe.
Era diffusa l’ambizione ed era soda la convinzione che l’ultimo capitolo del conflitto israelo-palestinese potesse concludersi come altrimenti non avrebbe potuto, e cioè secondo le direttrici date da due anni di manovre apparentemente vincenti del discorso pubblico e dei posizionamenti diplomatico-internazionali. Insomma, pressappoco, con l’archiviazione minimizzatrice del 7 ottobre, con il salvacondotto politico in favore di forze terroristiche ammesse ulteriormente a influire sulla Striscia, con Israele e i suoi dirigenti alla sbarra della giustizia internazionale, con l’Autorità Palestinese legittimata così com’è al posto di Hamas e con le agenzie delle organizzazioni umanitarie rimesse al loro posto nel governo ambiguo degli aiuti.
La risoluzione del 17 Novembre travolge catastroficamente quelle ambizioni e quelle convinzioni, e non a caso ha suscitato la furibonda reazione delle dirigenze terroristiche palestinesi. Già l’esordio dice tutto, quando riconosce che “la Striscia di Gaza minaccia la pace regionale e la sicurezza degli stati vicini”: un principio che urta e mette nel nulla un biennio di propaganda secondo cui il mero ritiro israeliano avrebbe aperto le porte della pace. Ma la ciccia è nel prosieguo. Si dice senza più ambiguità che non c’è futuro di ricostruzione possibile senza un’opera di effettiva de-radicalizzazione di Gaza. Si dice che l’Autorità Palestinese, ad oggi, non è un soggetto affidabile e che potrà diventarlo se dimostrerà concretamente, non a parole, di riformare il proprio fondamento costitutivo e di ispirare a trasparenza la propria amministrazione.
Si dice che il sistema di assistenza sarà gestito dalle organizzazioni internazionali e umanitarie sul presupposto, e cioè alla condizione, che non finisca per finanziare i gruppi terroristici. E questa non è la gratuita riaffermazione di un principio ovvio: è una dichiarazione di condanna, cioè il riconoscimento che, fino a oggi, quelle agenzie sono state inefficaci nell’impedire, o conniventi nel consentire, che il sistema di assistenza andasse a vantaggio meno della popolazione che delle formazioni e dirigenze terroristiche che la tenevano in ostaggio. Si dice, ancora, che il processo di pace non suppone affatto un incondizionato ritrarsi di Israele dalle posizioni il cui mantenimento è necessario per garantire le ragioni di sicurezza dello Stato Ebraico e si precisa, dunque, che Israele continuerà a presidiare le zone di interesse “fino a quando Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi rinascita di minaccia terroristica”.
Si dice che il compito del presidio internazionale che opererà a Gaza comprenderà la distruzione delle installazioni militari e la prevenzione della possibilità che siano ricostituite. Bisognerà vedere nei fatti, ma sulla carta significa: continui quella forza internazionale a fare ciò che – dovutamente – ha fatto Israele finora. Si dice, infine, che gli Stati membri del “Board of Peace” – cioè l’entità con personalità giuridica internazionale che darà attuazione al piano – saranno direttamente responsabili nell’assicurarne il rispetto e l’esecuzione, collaborando con Israele. Un passo avanti a dir poco notevole rispetto ai tempi, anche recenti, dei vagheggiamenti che volevano coinvolgere gli Stati in una generale politica di boicottaggio e incriminazione di Israele.