L'intervista
Sinistra per Israele nel nome di Rabin, Fiano: “Due popoli, due democrazie, auspico un cambio radicale della classe dirigente sia Israele che in Palestina”
di HaKol - 20 Novembre 2025 alle 14:39
Emanuele Fiano, dirigente storico della comunità ebraica italiana, già deputato PD e fondatore di Sinistra per Israele, è oggi una delle voci più autorevoli nel dialogo tra progressisti europei e società israeliana. L’associazione celebra oggi una giornata pubblica dedicata alla figura di Itzhak Rabin, ex presidente e primo ministro israeliano assassinato trent’anni fa.
Una agenda densa per questa due giorni di Sinistra per Israele…
«Celebriamo i 30 anni dal terribile assassinio di Rabin, all’epoca primo ministro laburista dello Stato d’Israele, che firmò con Yasser Arafat, presidente dell’OLP, il famoso trattato di Oslo e la pace di Washington. Noi lo vogliamo celebrare perché Rabin impersona per noi la summa delle nostre idee, cioè la difesa del diritto dello Stato d’Israele ad esistere e la difesa del principio che serve anche accanto ad Israele uno Stato palestinese».
Rabin come padre di una cultura politica: che cosa rappresenta oggi?
«Rabin fu reso celebre dalla frase che poi forse derivava da una precedente frase di Ben Gurion, ma comunque che avrebbe continuato a combattere il terrorismo come se non esistesse una possibilità di pace e che avrebbe continuato a percorrere la strada della pace come se non esistesse la necessità di difendersi dal terrorismo».
Arafat e Rabin seppero distinguere memoria e futuro. Che cosa ci insegna questo oggi?
«Rabin e Arafat sapevano che le narrazioni della storia nazionale di ognuno dei due popoli non avrebbero mai coinciso. La data del 15 maggio 1948 per gli israeliani è la data legittima di fondazione dello Stato d’Israele e per i palestinesi inizia la tragedia che loro chiamano Nakba. Ma Arafat e Rabin furono in andare oltre. Noi dobbiamo costruire insieme la storia del futuro per i nostri figli, per i nostri nipoti, e per questo riuscirono a stringersi la mano nonostante fino, diciamo così, metaforicamente un minuto prima ognuno pensasse dell’altro che le mani dell’altro fossero grondanti del sangue del proprio popolo».
Oggi sembra un’utopia…
«Rabin e Arafat avevano capito che la pace si fa con il nemico. Dunque la pace implica compromessi, rinunce, mediazioni. In quel caso il compromesso era territori in cambio di sicurezza, con l’avvio di un processo di costruzione di uno Stato palestinese nei territori occupati».
Sinistra per Israele nasce anche per ricucire un dialogo politico che si è molto allentato?
«Sì, non c’è dubbio. Mentre parliamo c’è un incontro che è un compimento del nostro scopo: la segretaria nazionale del Partito Democratico e il suo responsabile esteri, Schlein e Provenzano, stanno incontrando i nostri due ospiti principali, Yossi Beilin e il palestinese Samih al-Abed. Realizzare questi incontri è uno degli scopi essenziali del nostro lavoro. E questo è uno dei lavori che deve fare la sinistra europea, il PSE, qui in Italia il PD: tessere i fili del rapporto con chi in Israele difende la propria esistenza ma difende anche l’idea di due Stati per due popoli».
La società israeliana è molto più plurale di come viene descritta.
«Non c’è dubbio. Poco fa la Corte Suprema ha ordinato di comminare sanzioni penali pesanti contro gli ultraortodossi che risultano eludere la leva del Paese. In Israele c’è una Corte Suprema sferzante in molti casi. E c’è una fortissima opinione pubblica, sotto-rappresentata in Parlamento, che chiede cose essenziali: punire le violenze in Cisgiordania, interrompere la guerra a Gaza, riportare gli ostaggi, fornire aiuti ai palestinesi, istituire una commissione d’inchiesta indipendente sul 7 ottobre».
Nelle scuole, cosa le chiedono gli studenti?
«Mi chiedono spesso cosa stiamo facendo per abbattere Netanyahu e gli rispondo che nelle democrazie i Presidenti del Consiglio si avvicendano e non si abbattono. C’è il voto, speriamo che vada bene… ma questo è nelle mani degli israeliani».
Serve un cambio radicale anche nella leadership palestinese?
«E certamente: auspico un cambio radicale della classe dirigente in Israele, lo auspico anche per quella palestinese, perché serve una leadership creduta dal proprio popolo, forte, che possa garantire passaggi essenziali nei prossimi anni».
Vede un ciclo che si chiude, oggi? Possiamo essere ottimisti sulla risoluzione votata all’ONU l’altro ieri?
«La risoluzione ONU con l’astensione di Russia e Cina e il voto favorevole di tutti gli altri – incluso l’Iran – è un fatto immensamente positivo: comprende la prospettiva di uno Stato palestinese e comprende un ruolo internazionale di interposizione. È molto importante».
È realistico tornare a parlare, oltre che di due popoli, due Stati, della necessità di due democrazie?
«È fondamentale rimettere al centro la parola “democrazia” per il mondo arabo, per i palestinesi e per Israele, dove Netanyahu aveva tentato di ribaltare la democrazia con la riforma della giustizia. Senza democrazia non c’è libertà, è impossibile».