Gaza City e la fine della guerra: come si smaschera l’ipocrisia dei pro-Pal
di Paolo Crucianelli - 23 Settembre 2025 alle 06:34
Da due anni il conflitto a Gaza occupa i titoli dei giornali e divide l’opinione pubblica. Ora che Israele affronta la battaglia finale di Gaza City, quella che dovrebbe segnare la sconfitta definitiva di Hamas, sarebbe logico attendersi un sospiro di sollievo, un segnale di speranza, si vede la luce in fondo al tunnel. Invece accade l’opposto: i soliti politici, nostrani e internazionali, i governi ideologizzati come quello spagnolo, e l’immancabile coro del mainstream e degli attivisti di tutto il mondo si stracciano le vesti, gridando al genocidio, alla deportazione, al massacro indiscriminato. Tutte parole dal denso significato simbolico ma prive di valenza giuridica.
Eppure, la realtà è semplice: la battaglia di Gaza City significa la fine della guerra. Non una prosecuzione indefinita, non un massacro senza scopo, ma il passo necessario per chiudere un conflitto che da due anni tiene in ostaggio due popoli. Continuare a invocare tregue e cessazioni unilaterali delle ostilità proprio adesso equivale a prolungare la guerra, non a fermarla. È un’ipocrisia colossale.
Il fattore tempo, nei conflitti, è decisivo: più la guerra dura, più si moltiplicano le sofferenze della popolazione civile e il numero delle vittime. Fingere di ignorarlo significa condannare i palestinesi a soffrire ancora più a lungo. Lo si è visto in ogni guerra urbana dell’ultimo mezzo secolo: da Falluja a Mosul, fino a Marawi nelle Filippine, l’assedio e poi la presa di una città controllata da un gruppo terroristico è sempre stato il passaggio necessario per riportare pace e sicurezza. Nessuno allora si è sognato di gridare al genocidio. Oggi invece si pretende che Israele combatta un nemico che usa i civili come scudi umani rinunciando agli strumenti militari che qualunque esercito regolare ha sempre usato.
C’è poi un’ovvietà che nessuno sembra voler ricordare: l’opzione della resa incondizionata di Hamas, con la consegna delle armi e la liberazione degli ostaggi, è sempre sul tavolo. Se Hamas lo volesse, la guerra finirebbe immediatamente. Eppure, invece di mettere Hamas di fronte alle sue responsabilità, gran parte della politica e dei media preferisce spostare il peso morale su Israele, chiedendogli di fermarsi un passo prima della vittoria. È una distorsione logica che grida vendetta.
A questo punto, la domanda è inevitabile: queste persone sono davvero convinte di ciò che dicono, o la verità è che non vogliono che Israele vinca? Perché sostenere che Israele debba fermarsi proprio adesso, significa una cosa sola: che la priorità non è la pace né il benessere dei palestinesi, ma la sopravvivenza di Hamas, qualunque sia il costo umano. È difficile credere che ministri, diplomatici e leader di partito non capiscano questa evidenza. E dunque, se insistono, significa che il loro obiettivo non è la fine delle ostilità, ma solo la delegittimazione dello Stato ebraico. La negazione di questa evidenza non è più ingenuità: è una scelta consapevole. È un appoggio implicito ad Hamas o la manifestazione di un’ostilità profonda e pregiudiziale verso Israele, talmente profonda da sacrificare al suo altare le stesse persone che si dichiara di voler proteggere.