Gaza sotto le bombe e le inondazioni “Questa pace è uguale alla guerra”
Il dolore e la morte arrivano dal cielo. La tregua non ha portato sollievo. Le piogge inondano le fragili tende. I caccia israeliani continuano a colpire, a uccidere e ferire decine di persone, spazzando via intere famiglie di sfollati nel gremito campo di Nuseirat. L’ultimo attacco è arrivato martedì, a meno di due mesi dall’annuncio di un’iniziativa di pace mediata dagli Stati Uniti e presentata dal presidente Donald Trump come l’inizio «della fine della guerra a Gaza». Da allora, però, i residenti dicono che la realtà “post-bellica” è di gran lunga diversa dalle promesse fatte in televisione. L’esercito israeliano ha lanciato decine di operazioni aeree lungo la Striscia, definendole reazioni mirate nei confronti di presunte “violazioni” degli accordi da parte di Hamas: ritardo nella consegna dei corpi degli ostaggi, sospette attività di militanti. Gli attacchi di sabato scorso sono tra gli incidenti più letali finora. A Gaza City testimoni riferiscono che uno dei primi bombardamenti di sabato pomeriggio ha preso di mira un’auto di civili nella parte occidentale della città, uccidendo i tre passeggeri a bordo. Dopo non molto, i bombardamenti si sono spostati nella parte centrale. Nel campo profughi di Nuseirat, un’area densamente popolata nel mezzo della Striscia di Gaza, i residenti ricordano almeno tre ondate diverse di bombardamenti. Una ha colpito la casa della famiglia Abu Amouna, uccidendo tre persone. Un’altra, più devastante, ha colpito un agglomerato di case di membri della famiglia Abu Shawish. Intorno alle 16,15, un missile aria-terra ha colpito la casa di Ghaleb Abu Shawish, situata in un piccolo agglomerato di edifici adiacente al campo. Ghaleb, sua moglie e i loro tre bambini sono rimasti uccisi sotto il bombardamento. Soltanto Tala, dieci anni, è sopravvissuta. La bimba, che ora vive con la nonna, non riesce a comprendere la portata dell’accaduto. «Papà, mamma, i miei fratelli e le mie sorelle sono morti. Sono rimasta sola. Non ho fatto in tempo a salutarli. Mi hanno detto che dei loro corpi non restava granché», ha detto. «A chi dovrei dire addio per primo?». Le abitazioni della famiglia Abu Shawish sono addossate le une alle altre e tra di esse non c’è spazio, l’esplosione non si è limitata alla casa di Ghaleb. L’onda d’urto e i crolli si sono immediatamente estesi alla casa adiacente di Rami Abu Shawish, suo parente. Al momento dell’esplosione, in casa c’era tutta la famiglia di Rami. Quando la polvere si è posata, la casa è crollata loro addosso. La moglie di Rami, Sahar, e le loro figlie Habiba e Teema sono rimaste uccise insieme ai due figli maschi, Yousef e Mohammad. Rami stesso è stato estratto dalle macerie, vivo ma gravemente ferito, ed è stato trasferito nel reparto di terapia intensiva dell’Al-Aqsa Hospital nella vicina Deir al-Balah. Dei cinque figli di Rami, è sopravvissuta soltanto una ragazza, Batoul, 19 anni, studentessa. È ferita ma, quando i soccorritori l’hanno raggiunta, era cosciente. L’hanno trasferita subito nel reparto di chirurgia d’urgenza, dopo averle fatto salutare tutta la sua famiglia nell’obitorio dell’ospedale. «Da chi devo iniziare a dire addio per primo? Non lo so», ha gridato. I medici dicono che le sue condizioni adesso sono stabili, ma l’impatto psicologico dell’accaduto molto probabilmente durerà più a lungo delle cicatrici delle sue ferite. Più avanti, lungo il corridoio, nello stesso ospedale Saeed Riyad Saeed, 18 anni, è ricoverato in terapia intensiva. Anche lui è una vittima del bombardamento sul quartiere Abu Shawish. Quando il missile è esploso, le pareti della casa di famiglia – facente parte del medesimo piccolo agglomerato, densamente popolato – sono crollate schiacciandogli una gamba e ferendolo alla schiena. In un primo tempo, Saeed è stato trasportato al Nasser Hospitale di Jhan Yunis, per poi essere trasferito due volte avanti e indietro tra Nasser e Al-Aqsa, mentre i medici cercavano di stabilizzarlo. Alla fine, i medici hanno dovuto sottoporre il padre Riyad a una scelta impossibile. «Il dottore mi ha presentato due opzioni» ha detto Riyad, fuori dall’unità di terapia intensiva con un modulo di consenso in mano. «Mi ha chiesto se preferissi salvare la gamba di mio figlio o la sua vita». Riyad ha firmato il modulo, autorizzando così l’amputazione della gamba del figlio nella speranza di salvargli la vita. Poco prima dell’operazione, però, nuovi esami hanno accertato la presenza di schegge conficcate nella schiena, pericolosamente vicino agli organi vitali. «Mio figlio è in condizioni critiche», racconta Riyad: «Ogni volta che lo visitano gli trovano qualcosa d’altro. Che colpe aveva? Era seduto in casa, non stava facendo niente di male». Il bombardamento ha colpito anche i visitatori, non soltanto i residenti. Kamilia Abu Shawish, 50 anni, ha perso suo figlio Salam di 30 nel medesimo attacco: quel pomeriggio era uscito per andare a trovare parenti a casa di Rami a Nuseirat e pare che quando è caduto il missile fosse sulla soglia di casa. Lo hanno trasportato di corsa in ospedale, dove ne hanno dichiarato la morte. Lascia un bambino di un anno. Per Kamilia con questa tragedia si ripete un incubo iniziato poco tempo fa.«Proprio il giorno prima che morisse, abbiamo celebrato l’anniversario della morte di suo fratello. Io non ho ancora elaborato il lutto della perdita del mio primo figlio, e oggi devo già seppellire il secondo». Le sue parole riflettono quello che a Nuseirat provano in tanti: le parole del “piano di pace” e del “cessate il fuoco a fasi” hanno fatto ben poco per cambiare la quotidianità dei civili. Per la popolazione di Gaza, il dibattito su chi abbia infranto per primo gli accordi passa in secondo piano rispetto alle sue conseguenze. L’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si focalizza sui negoziati diplomatici e i calcoli politici – a Washington, Tel Aviv, nelle capitali europee mentre le famiglie a Nuseirat dicono di sentirsi abbandonate in una realtà “post-bellica” che di fatto assomiglia moltissimo a una guerra. Per Tala, accoccolata nelle braccia della nonna, le parole del cessate il fuoco e del piano di pace significano poco. Ha soltanto una domanda che ripete a bassa voce in continuazione: «Perché mi hanno lasciata sola?».