Il processo a Eichmann e la controversa banalità del male

Dall’aprile al dicembre 1961 si tenne a Gerusalemme un processo di grande risonanza, quello ad Adolf Eichmann, terminato con la sua condanna a morte e seguito oltre che dagli israeliani, in particolare dai sopravvissuti alla Shoah, da decine di giornalisti da tutto il mondo. Fra loro, Hannah Arendt, che seguì il processo per “The New Yorker”, con una serie di articoli da cui trasse nel 1963 un volume, Eichmann in Jerusalem: a Report on the Banality of Evil, che suscitò molte discussioni e polemiche sia in Israele e negli Stati Uniti che in Europa. Lo sguardo che Arendt gettava sul processo era infatti uno sguardo molto critico, non perché ne negasse la necessità o la legittimità, ma per il modo in cui era stato condotto. Ma soprattutto, a sollevare le critiche erano due punti fondamentali della sua interpretazione. Il primo era la sua valutazione molto severa sul ruolo dei Consigli ebraici nei ghetti, che avrebbe a suo dire facilitato la deportazione degli ebrei collaborando sostanzialmente con i nazisti. Era un tema in quei primi anni dalla nascita dello Stato assai sentito in Israele, dove ancora i sopravvissuti rischiavano di incontrare nelle strade delle città israeliane i membri della polizia ebraica che nei ghetti li avevano arrestati e spediti in deportazione. Nel 1950 il Parlamento aveva votato una legge contro i collaborazionisti, che prevedeva la pena di morte, pena comunque abolita nella legge israeliana nel 1954. Ma definire il ruolo dei Consigli ebraici era comunque un discorso difficile, in cui sottile era il confine tra il collaborazionismo e il tentativo dei Consigli di salvare almeno una piccola parte di ebrei dalla deportazione immediata. Per Arendt, in passi che ci ricordano i suoi scritti dei primi anni americani, quando la giovane filosofa era ancora una convinta sionista e mentre in Europa i treni portavano ancora gli ebrei nei campi di sterminio, l’azione dei consigli ebraici dei ghetti era stata decisamente una forma di collaborazionismo. L’altro argomento di critica e dibattito, quello forse più noto, è quello della valutazione da lei data di Adolf Eichmann. Molti, in particolare fra i politici del giovane Stato di Israele, lo definivano un mostro, il diavolo in persona. Così lo aveva definito un giudice durante un processo contro un esponente laburista, Kastner, accusato di collaborazionismo per le sue trattative con Eichmann: Kastner aveva, disse, dato la sua anima al diavolo. O Eichmann era invece, come scrive Hannah Arendt, un burocrate dello sterminio, un uomo incapace di pensare e distinguere il bene dal male.

Il grande archivio di Israele

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