Il Libano tra una tregua falsa e la guerra vera
«Il conto è due milioni e 200mila lire libanesi, se vuole può pagare con 24 dollari», dice un giovane alla cassa del supermercato Makhazen di Hamra. Basta osservare la svalutazione eccezionale subita negli ultimi anni dalla lira libanese nei confronti del dollaro – prima della crisi del 2019 un dollaro valeva 1.500 lire – per comprendere la gravità della crisi economica e finanziaria che strangola il Libano. Il carovita è il nemico numero uno e svolgere più di un lavoro è la regola che detta il ritmo in gran parte delle famiglie. Qui ad Hamra, quartiere centrale di Beirut, popolare ma non povero, il fermento è quello di sempre: automobili e persone affollano strade e marciapiedi e negozi di ogni tipo vendono di tutto e di più. I CAFFÈ, nonostante tutto, sono abbastanza pieni. Però sono aumentati chi, uomini e donne, con molta discrezione ti chiede qualche biglietto da mille per mangiare. La guerra bussa di nuovo alle porte del Libano a un anno esatto dall’inizio della tregua tra Israele e Hezbollah, anche se il cessate il fuoco non è mai stato rispettato da Tel Aviv che ha ucciso centinaia di libanesi, molti dei quali combattenti o affiliati a Hezbollah: domenica scorsa è stato colpito il comandante militare del movimento sciita, Haytham Ali Tabatabai. All’uscita del supermercato scambiamo qualche parola con chi ha appena fatto degli acquisti. Nessuno si sbilancia troppo, parlare con gli stranieri, con persone che non si conoscono, non è saggio in un paese che si è scoperto incredibilmente esposto alle attività dell’intelligence di Israele, oltre a essere spaccato tra i sostenitori e oppositori del fronte della Resistenza capeggiato dal movimento sciita Hezbollah. «UNA NUOVA guerra sarebbe un disastro», ci dice un signore sulla cinquantina che ha comprato dei detersivi. «Questo paese sta andando in rovina, i soldi non bastano mai. La ripresa della guerra aggraverebbe soltanto i problemi», aggiunge esortando a mezza bocca anche «le parti libanesi», cioè Hezbollah, a rispettare la tregua. Le difficili condizioni del Libano frenano la risposta del movimento sciita all’assassinio di Tabatabai: offrirebbe a Israele il pretesto per lanciare la sua offensiva. Tuttavia, non si può escluderla del tutto: secondo alcune voci, la base più militante del gruppo sciita non approva la linea prudente adottata dal segretario generale Naim Qassem, che ha preso il posto del leader storico Hassan Nasrallah ucciso da Israele il 27 settembre dello scorso anno. Fuori dal supermercato ci rivolgiamo a un giovane che, dopo qualche esitazione, si dichiara convinto che Israele non tornerà a bombardare il Libano del sud e la periferia meridionale di Beirut perché «tra qualche giorno inizia la visita di papa Leone e (Netanyahu) non arriverà al punto di colpire con il pontefice presente nel paese». Israele probabilmente si asterrà dal rilanciare la guerra nei giorni del viaggio del papa in Turchia e Libano. TUTTAVIA, IL MINISTRO della difesa Israel Katz, l’altro giorno ha dato una sorta di ultimatum al premier Nawaf Salam e al capo dello Stato Joseph Aoun (entrambi filo-occidentali): se entro la fine dell’anno il governo libanese non avrà disarmato Hezbollah, Tel Aviv riprenderà la sua offensiva aerea e di terra. Gli americani, secondo i media dello Stato ebraico, avrebbero spiegato all’esecutivo libanese che la minaccia israeliana va presa sul serio. In ogni caso Tel Aviv non è rimasta a guardare da quando un anno fa è scattata ufficialmente la tregua, ci ricorda il giornalista Hussein Ayoub. «Israele – spiega – tra incursioni e attacchi aerei, fuoco di artiglieria, demolizioni di edifici, sparatorie contro civili, ha violato costantemente la tregua. Il Libano ha denunciato queste violazioni e ha presentato numerose denunce all’Onu senza successo. E non dimentichiamo che migliaia di famiglie sfollate non sono tornate alle loro case (nel Libano del sud) perché Israele le ha distrutte o i loro villaggi sono cumuli di macerie». SECONDO IL CENTRO di ricerche Acled, l’esercito israeliano ha violato il cessate il fuoco 2.449 volte tra il 27 novembre 2024 e il 14 novembre 2025. I villaggi lungo la Linea Blu sono di gran lunga i più colpiti. Aita al-Shaab è stato l’obiettivo principale con 50 attacchi aerei, seguito da Kfar Kila (45), quindi Naqoura e Yaroun (32). 343 persone (inclusi 136 civili) sono state uccise – tra cui 20 palestinesi di cui 13 adolescenti nel campo profughi palestinese di Ein El Hilwe lo scorso 18 novembre – e quasi l’intera area di confine ora funge da zona cuscinetto. Israele inoltre continua a fortificare le sue postazioni all’interno dei cinque villaggi libanesi che occupa nonostante gli accordi di tregua. Quindi ha costruito un muro nel distretto di Bint Jbeil, tra Aitaroun e Maroun al-Ras, a sud della Linea Blu di confine, e un altro a sud-est di Yaroun. Cosa farà Hezbollah di fronte alla minaccia israeliana di rilanciare la guerra, rinuncerà alle armi? Hussein Ayoub, pur considerando che Hezbollah non ha più le capacità militari che possedeva prima del 7 ottobre 2023 e che non riceve più ingenti finanziamenti dall’Iran e armi attraverso la Siria, non crede che accetterà un suo disarmo completo: «L’operazione di disarmo di Hezbollah spetta all’esercito e al momento non si capisce se ciò avverrà». Ma il governo Netanyahu può davvero, attraverso la guerra, disarmare Hezbollah? «Israele – aggiunge Ayyoub – ha distrutto tutta Ga2a e alla fine non è stato in grado di liberare gli ostaggi, se non tramite un accordo e dei negoziati. La fine della guerra a Ga2a vede Hamas ancora presente e altrettanto avverrebbe in Libano dopo i bombardamenti israeliani contro Hezbollah». OMAR È UNO dei tanti libanesi di Hamra, e con ogni probabilità dell’intera Beirut e di tutto il paese, che fa gli scongiuri contro la guerra. Aveva trovato nell’affitto breve del suo appartamento ai turisti la soluzione per aggirare la crisi economica e la svalutazione della lira. «Per un certo periodo è andata bene, poi prima il Covid e dopo la guerra hanno interrotto l’arrivo dei turisti occidentali e arabi. E ora faccio fatica ad andare avanti. Noi non la vogliano una nuova guerra».