Il valico di Rafah: l’ipocrisia dell’Egitto

di Paolo Crucianelli - 1 Ottobre 2025 alle 15:09

Il 16 febbraio 2024 l’Egitto bollava come «completamente inaccettabile» qualsiasi scenario di spostamento di massa dei palestinesi da Gaza verso il Sinai, nel pieno dei timori di un’operazione israeliana su Rafah. Nello stesso periodo circolavano le prime immagini satellitari di una nuova zona cuscinetto fortificata sul lato egiziano del confine: muri in calcestruzzo, torri e perimetri chiusi, non per accogliere ma per sigillare.

Tra il 5 e il 7 settembre 2025, con la guerra ancora in corso, Il Cairo ha ribadito la sua “linea rossa”: nessun trasferimento di popolazione attraverso Rafah; aprire il varco per un esodo significherebbe svuotare la causa palestinese e legittimare di fatto il controllo di Hamas su Gaza. Il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, ha definito l’eventuale accoglimento dei profughi «la liquidazione della causa palestinese» e ha allontanato ogni responsabilità parlando di “genocidio” per condannare le operazioni militari israeliane.

Intorno a questa posizione si sono stretti altri Paesi arabi, dal Qatar agli Emirati fino all’Arabia Saudita, tutti uniti, almeno formalmente, nel ripetere il “no” a qualsiasi corridoio che possa assomigliare a un trasferimento, anche solo temporaneo.

Tradotto dal linguaggio diplomatico, significa: meglio non aprire Rafah a chi fugge dalle bombe, per non “darla vinta” a Israele. È qui che l’argomento politico si rovescia in ipocrisia, perché il prezzo della postura “di principio” lo paga la popolazione civile intrappolata. In termini pratici, l’apertura controllata del valico sarebbe uno sfogo necessario per evacuare almeno le fasce più vulnerabili – feriti, malati, minori – senza che questo pregiudichi il diritto al ritorno. Ma Il Cairo preferisce la simbologia del “restare sulla propria terra” a costo di impedire a chi vuole salvarsi di farlo. Una scelta che equivale a lasciare morire le persone, pur di non cedere su un totem politico.

Nel frattempo, l’Egitto ha rafforzato il dispositivo militare nel Sinai: oltre al recinto fortificato segnalato nel 2024, attualmente fonti israeliane e analisi indipendenti, corroborati da immagini satellitari, parlano di mezzi corazzati e reparti schierati in numeri estremamente superiori a quelli previsti dagli Accordi di Camp David del 1979, che limitano la presenza militare egiziana nel Sinai, salvo consenso con Israele. Gerusalemme ha sollevato contestazioni, Il Cairo ha risposto che serve a garantire sicurezza e a evitare infiltrazioni. Ma la sostanza è chiara: il Sinai si militarizza per blindare il confine e impedire l’ingresso dei profughi.

A sostenere l’Egitto non è solo il mondo arabo: anche una parte consistente del fronte pro-palestinese in Occidente grida contro il numero di vittime e la crisi umanitaria a Gaza, ma non critica mai Il Cairo per la scelta di tenere chiuso il varco. Il risultato è una doppia ipocrisia: arabi e filopalestinesi denunciano i morti nella Striscia, ma risparmiano l’Egitto che, con la sua linea esecrabile e criminale, contribuisce in modo decisivo al peggioramento della tragedia.

Le parole contano, ma contano di più le conseguenze. Dire “non apriremo Rafah perché sarebbe una vittoria per Israele” significa trasformare una bandiera politica in barriera fisica contro civili in fuga. È una posizione che, al netto delle motivazioni di sicurezza o del timore di una nuova Nakba, resta moralmente inaccettabile: perché sacrifica vite sull’altare dell’ideologia. E l’assenza di una critica chiara a questa scelta, da parte di chi sostiene di difendere i palestinesi, è un’ipocrisia che pesa quanto quella egiziana.

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