La protesta nel nome dell’imam espulso per le frasi sul 7 ottobre

I guai di Mohamed Shahin sono cominciati il 9 ottobre: l’imam torinese, origine egiziana ma in Italia da oltre 20 anni, aveva detto in piazza «sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre 2023, non è una violenza». Frasi che il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha riportato nel decreto che disponeva l’espulsione dell’imam per «motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo». Una decisione che sta scatenando proteste in tutta Italia, degenerate venerdì nell’assalto alla redazione de La Stampa, a Torino. Un assalto condannato dalla moschea guidata da Shahin e dallo stesso imam, che da metà settimana è recluso nel Cpr di Caltanissetta: «Come persona di fede ho sempre provato a trasformare il dolore della Palestina in manifestazioni pacifiche, dove non ho mai appoggiato iniziative violente. Ho sempre cercato di promuovere l’ordine pubblico tra i manifestanti». Le parole del 47enne egiziano avevano immediatamente suscitato polemiche, con la deputata Augusta Montaruli (Fdi) a chiedere per I prima la sua espulsione. E il 19 novembre è arrivato il decreto di Piantedosi, in cui si legge che Shahin «ha un ruolo di rilievo in ambienti dell’Islam radicale ed è messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita». Eppure non ci sono indagini a suo carico per reati di istigazione o terrorismo, risulta incensurato e l’unica denuncia riguarda un blocco stradale del 17 maggio (quando gli attivisti pro Palestina avevano bloccato lo svincolo per l’aeroporto di Caselle). Quindi il motivo dell’espulsione sono le dichiarazioni del 9 ottobre, quando ha «difeso i terroristi di Hamas legittimando lo sterminio di inermi cittadini israeliani». Anche se, nel decreto di espulsione, Piantedosi definisce Shahin «un esponente della Fratellanza Musulmana in Italia» e fa riferimento a contatti «con soggetti noti per la loro visione radicale e violenta della religione». Rapporti che l’imam ha negato giovedì durante l’udienza di convalida del suo trattenimento. Collegato in videoconferenza da Caltanissetta, ha detto che «il popolo palestinese ha dovuto reagire. Ma io non sono un sostenitore di Hamas». Poi ha aggiunto di aver paura se dovesse essere rimpatriato in Egitto: «Questo decreto di espulsione significa morte o tortura certa per lui – sottolinea l’avvocato Gianluca Vitale, che assiste Shahin insieme alla collega Fairus Ahmed Jamain – Ma ha paura anche per la moglie e i suoi figli di 12 e 9 anni». I due legali hanno già fatto richiesta di protezione internazionale alla commissione di Caltanissetta, che l’ha respinta. Così è scattato il ricorso, che si aggiunge a quello in Cassazione contro la convalida del trattenimento nel Cpr, quello al Tar del Lazio contro il decreto di espulsione e quello al Tar Piemonte contro la revoca del permesso di soggiorno. «Shahin ha chiarito che il senso del suo discorso sul 7 ottobre non era giustificare ma contestualizzare un’azione terroristica e non condivisibile – riflette ora l’avvocato Vitale – Sono concetti espressi anche dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres».

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