I paladini del mare calmo: i quattro parlamentari e la resa firmata a piè di pagina
di Paolo Crucianelli - 6 Ottobre 2025 alle 16:20
Per un mese intero li abbiamo visti ovunque, i nostri quattro valorosi parlamentari naviganti: in collegamento in diretta dalla Sumud Flotilla. Con voce grave e sguardo ispirato, ci spiegavano che il blocco navale israeliano era illegale, che loro si trovavano in acque internazionali, e che l’intervento della Marina di Gerusalemme avrebbe costituito un atto di pirateria.
Ci hanno ammorbato con lezioni di pseudo diritto marittimo, citazioni tratte dalla Convenzione di Ginevra del ’49, e affermazioni solenni sulla libertà dei popoli e dei mari. Poi è arrivato il momento della verità: uno scarno foglio da firmare, consegnato nelle loro mani dai funzionari israeliani. Quel documento, la famigerata Declaration of Voluntary Departure, dice più di mille proclami:
“Dichiaro di accettare il rimpatrio immediato e di rinunciare a ogni contestazione legale relativa al mio ingresso non autorizzato in Israele”. Tradotto: ammetto di essere entrato illegalmente in Israele e chiedo di essere rimandato a casa. E loro hanno firmato. Subito. Tutti e quattro. Hanno preferito l’imbarco immediato sul volo diretto Arkia Israeli Airlines IZ 335 per Roma – decollo da Tel Aviv, arrivo a Fiumicino alle 14:10 – lasciando indietro i compagni di ventura, quelli che, più coerentemente, hanno scelto di non firmare e di restare in custodia per affrontare la procedura ordinaria di espulsione.
È curioso osservare come le convinzioni più granitiche si sciolgano davanti alla porta di una cella e a un modulo ministeriale. Per settimane hanno ripetuto che “le acque erano palestinesi”, che “Israele non aveva giurisdizione”, che “non riconoscevano l’autorità dello Stato occupante”. E poi? Firmano un foglio in cui riconoscono proprio quella giurisdizione, ammettendo di aver violato le leggi israeliane e internazionali. Perché? Per poter tornare subito a casa dalla Mamma e dai microfoni dove avrebbero potuto dirsi vittime.
Un capovolgimento logico degno di una commedia dell’assurdo, ma senza la profondità filosofica di Ionesco. In teoria, chi non firma resta qualche giorno in cella, viene interrogato e poi espulso con divieto d’ingresso decennale. Nulla di drammatico, se si crede davvero nella causa che si professa. Ma evidentemente la solidarietà rivoluzionaria finisce dove inizia la comodità del rimpatrio immediato.
Quello che lascia interdetti non è la paura o la stanchezza – umane, comprensibili – ma la disinvoltura morale di chi ha costruito per settimane una narrazione eroica per poi rinnegarla con un colpo di penna.
I quattro parlamentari che si erano presentati come portavoce istituzionali della protesta, simboli di un’ideale “resistenza civile”, si sono rivelati alla fine semplicemente i primi ad “abbandonare la nave”. Hanno invocato coraggio, ma hanno preferito la via del ritorno veloce, lasciando gli altri nelle mani della burocrazia. Se non avessero agito come hanno fatto, si potrebbe almeno riconoscere loro una coerenza ideologica, uno spirito di corpo per avere voluto condividere la loro sorte con gli altri attivisti, una solidità morale. E così, i “paladini del mare libero” sono rientrati come passeggeri priority di un volo commerciale, pronti a raccontare in TV l’ennesimo atto di “resistenza”.
Solo che, stavolta, l’unica vera resistenza è stata quella della realtà contro la loro retorica. E se qualcuno chiedesse loro conto di quella firma, probabilmente risponderebbero che “è stata una formalità” o, peggio, che sono stati costretti. Ma quella firma, più di ogni dichiarazione, racconta chi erano davvero: eroi da salotto, in business class.